ECM Records – ECM 2338 – 2013
Aaron Parks: pianoforte
Se il pianismo contemporaneo appare solcato da uno spartiacque non nettamente definito tra un jazz “nero” e speculativo in cui potremmo indicare quali punte emergenti i Taborn, Shipp o Moran, e un altrettanto semi-indefinito versante “bianco” ed europeizzante (Hersch, alcuni aspetti di Jarrett o Mehldau, etc) in tale solco, pur se intuitivamente più affine al secondo blocco, potremmo per semplice riferimento “collocare” il celermente emergente nonché appena trentenne prodigio da Seattle, oggi radicato sulla scena di New York, di protratta dimestichezza con la dimensione del cantato (citando en passant la prolungata partnerhsip con Gretchen Parlato) o nel prodursi quale spirito melodico di musicisti eterogenei quali Christian Scott, Kurt Rosenwinkel o il giovane talento Jo-Yu Chen, e a siffatte esperienze, fondative ma non esaustive, possono ascriversi attitudini e sensibilità affatto peculiari.
Si potrebbe riconoscere che una grande ala del più recente jazz (Iyer, Wollny etc.) stia lavorando ad una enunciazione melodica operando delle “convergenze parallele” con un sentire che risuona linguisticamente classico, ma i fenomeni appaiono indipendenti, assai probabilmente spontanei, e nel presente caso sembra perseguirsi una ricerca dove un ampliato linguaggio di neo-sintesi più che inerpicarsi verso ostici picchi innovativi discende verso più piane vallate ove fertilmente s’incontrano una riveduta e gemmante classicità con le forze della spontaneità e dell’immediatezza.
Non solo si deborda ma dichiaratamente si prescinde dai “confini naturali” (limite verbale ma non di fatto) del jazz: comunque l’àmbito voglia essere inteso, la ricerca di Parks non mira a compiacere classicisti o avanguardisti, tenuti a strategica distanza dalla sua ricerca sensibile ed istantanea.
La febbrile ricerca di un Étude di Chopin o le iterazioni intime di una nenia di Bartók, le esplorazioni melodiche libere di certi solo jarrettiani, insomma tutto un complesso fluire di cantabilità, apolidi e spesso anti-jazz che, non del tutto involontariamente, sfociano in una sorta di lezione sulla composizione semi-istantanea nelle Arborescenze del titolo, certo più che efflorescenze, non potendosi riscontrare e nemmeno imputare “fioriti” indugi, narcisismi o leziosità.
Esponendo entro un’ampia camera privata un’esplorazione del sé che dall’introspezione sovente tocca la dimensione della confessione, l’agglutinazione fraseologica densa che mai s’astiene da una fruibilità ariosa conduce l’ascolto lungo una persistente linea interrogativa.
Dunque quest’ala, indipendente e ardita del verde neo-jazz, di cui sempre più si stenta a fissare i connotati, nel presente opus dispensa un ulteriore e attivo tutorial di conquista dell’armonia in naturalezza, senza disconoscere l’approccio colto: l’escursione talvolta spericolata si fa veemenza oracolare, coniugando ardimento e scienza costruttiva così come temperamento poetico e concretezza visionaria.