Gregory Porter Liquid Spirit @ Auditorium. Roma

Foto: da internet










Gregory Porter Liquid Spirit @ Auditorium. Roma

Roma, Parco della Musica – 10.4.2014

Gregory Porter: voce

Yosuke Satoh: sax contralto

Chip Crawford: pianoforte

Aaron James: contrabbasso

Emanuel Harrold: batteria


Gregory Porter l’avevamo lasciato giusto un anno fa di questi tempi reduce dalla brillante esperienza dell’Umbria Jazz Winter, dove figurava tra gli ospiti di punta di tutta la manifestazione, e, proprio ad inizio primavera, protagonista di un intenso concerto all’Auditorium di Roma, in rampa di lancio verso un roseo futuro. E, in soli dodici mesi, di strada ne ha effettivamente fatta tanta: ha dapprima pubblicato Liquid Spirit, il suo terzo album, per una major tra le più prestigiose, la Blue Note, vinto dopo due nomination un Grammy come miglior album di jazz vocale, e visto passare i suoi brani dalle grosse radio commerciali anche italiane, in genere non proprio inclini verso i personaggi orbitanti nella sfera jazzistica. Un 2013 davvero da incorniciare che l’ha proiettato tra le nuove e più convincenti figure della nuova scena musicale nera. Ecco che così, complice anche una mirata campagna di marketing e dei video ben confezionati, che la stessa Sala Sinopoli che l’altro anno presentava larghi spazi vuoti, appare adesso gremita già in prevendita.


La formazione è la medesima che lo segue ormai da tempo sia nelle incisioni in studio che nei concerti, collaudata nei meccanismi e notevole nell’interplay, con il repertorio più ampio e basato inevitabilmente in larga parte nella presentazione dei nuovi brani. Le premesse per assistere nuovamente ad un bello spettacolo erano insomma più che giustificate, anche in considerazione di come quella live sia decisamente la dimensione migliore per ascoltare e godere del talento di Porter.


Fatti salire sul palco per primi i suoi fidati compagni per una introduzione strumentale, il cantante californiano, acclamato a gran voce dal pubblico presente, entra in scena sulle note lente della ballad Real Good Hands. Elegantissimo come sempre, in un completo grigio “accompagnato” dall’immancabile cappello con tanto di paraorecchie, Porter inizia con il piglio della grande star, consapevole del ruolo che è riuscito finalmente a ritagliarsi. I primi brani seguono un andamento fin troppo disteso apparendo subito distanti dallo stile dell’ultima apparizione: i pezzi spinti e dilatati, in cui ampio spazio veniva lasciato ai vari solisti, sono ormai un ricordo, con i brani che presentano adesso una struttura più pop e convenzionale ed una durata più radiofonica. Anche quando arriva il momento della hit che dà il titolo all’ultimo album, la ritmica, solitamente possente ed energica, appare debole e nascosta, lasciando alla potente voce di un Porter in grande forma completamente la scena. Anche il minuto sassofonista Yosuke Satoh da sempre al suo fianco, alter ego perfetto della sua calda voce, non trova più troppo spazio, meritandosi qualche applauso soltanto per qualche pirotecnico virtuosismo carico di note. Si sono perse le tracce anche dei tanti omaggi agli standard jazz che Porter riusciva con stile ad reinterpretare,dalla notevole Bye Bye Blackbird ai ritmi sostenuti di Work Song passando per la Black Nile di Wayne Shorter, per una virata verso l’R&B ed il pop con composizioni originali più facili, che comunque ne testimoniano anche la bontà da un punto di vista compositivo e di scrittura. Interrogato sulle ragioni del suo successo, il cantante ha sempre sostenuto di fare semplicemente ciò che la gente vuole sentire, e a giudicare dai risultati non gli si può dare torto. Brani come Be Good, Hey Laura o Painted On Canvas raccolgono il convinto sostegno del pubblico che intona i versi a memoria, e poco importa se pezzi più vecchi come 1960 What?, con quel mix di funk e gospel che riportava alla mente Gil Scott-Heron, sia ora riproposta in una versione più morbida e leggera, o che la splendida Lonesome Lover della coppia Abbey Lincoln e Max Roach diventi una breve introduzione per la più popolare Hit The Road Jack di Ray Charles. Alla fine è un successo assoluto.


Per adesso Porter ha dunque stravinto la sua sfida avvicinandosi alle richieste del grande pubblico con gusto e qualità, nella speranza tuttavia che il suo spirito liquido in futuro non si allontani troppo da quelle che sono le sue radici fatte di soul e jazz per seguire soltanto le logiche commerciali del grande business.