Foto: Romolo Fevola (Studio One) dal profilo facebook di Francesco Gazzara
Slideshow. Francesco Gazzara.
Jazz Convention: Così, a bruciapelo chi è Francesco Gazzara?
Francesco Gazzara: Un inguaribile appassionato. Di tanta musica (soul, bossa, lounge, soundtrack ma anche rock, progressive, elettronica e sinfonica), di strumenti vintage (Rhodes, Hammond, Moog e via dicendo), di football…
JC: Mi parli ora del tuo nuovo CD, The Bossa Lounge Experience?
FG: È il sesto album della band Gazzara che, oltre a Francesco Gazzara, comprende due elementi fondatori dal 1996, ovvero Massimo Sanna al basso e Mauro “Mirtao” Mirti alla batteria/percussioni, e il quarto con la Irma Records. È un disco che unisce molte delle nostre passioni musicali del passato, infatti per metà è costituito da cover da un repertorio molto eterogeneo: Sergio Mendes, Peter Gabriel, Antonio Carlos Jobim, Jamiroquai, Donald Fagen, Modjo, Style Council, Genesis, Horace Silver…
JC: Che qualità possiede secondo te?
FG: Il tutto è arrangiato con un gusto molto Gazzara – riconoscibile spero dai primi nostri album – tra r’n’b, motown soul, bossa lounge e altre influenze. I brani cantati sono interpretati da una vocalist soul che ha collaborato molto dal vivo con noi – e anche all’album precedente My Cup Of Tea: si chiama Lily Latuheru, viene dall’Olanda, e ha il timbro che cercavamo, vicino a certe cose di DC Lee degli anni ’80-’90.
JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?
FG: Probabilmente l’acquisto insieme a un amico vicino di casa di alcuni vinili di disco music, cose come Gino Soccio, Donna Summer, Giorgio Moroder. Credo fosse il 1977, avevo dieci anni. Ma a casa mia si respiravano musica e spettacolo già da prima…
JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista?
FG: Da teenager, dopo gli inizi disco e non ancora entrato nell’universo mod/soul, scoprivo il prog rock e i Genesis… in poco tempo mi ritrovai circondato da sintetizzatori, era un modo per evadere (ma non troppo) dagli studi classici di pianoforte. Quindi non si può negare che, come tanti ragazzi all’epoca, coltivavo il sogno di salire su un palco rock. Ma in realtà è stata la mia frequenza assidua, più avanti, nello studio di un compositore romano di musica per tv e cinema, come aiutante tutto fare, che mi ha introdotto nel mondo della musica per le immagini: quello che ancora oggi è il mio lavoro principale e che mi sono ritrovato a svolgere ancora giovanissimo quasi per caso.
JC: Ti identifichi o meno nel genere lounge?
FG: Se si trattasse di un genere nato adesso ti direi di no, anche perchç ascoltando l’album ci sono molte altri componenti dalla bossa all’acid jazz, per citarne due. Però avendo scritto un libro nel 1999 che si intitolava proprio Lounge Music: Il Blues dell’Uomo Bianco – ristampato nel 2012 da Odoya – ritengo di aver sempre navigato in quello che non è un genere bensì, a volte, uno stile di vita con radici ben salde nel jazz e nella musica exotica più creativa degli anni ’50.
JC: Come ti consideri? un jazzman, un bossanovista o un lounger o altro ancora?
FG: Un compositore che si è ritrovato a suonare dal vivo le sue canzoni. L’esperienza di arrangiatore ha poi fatto venire fuori le passioni musicali sempre coltivate, una volta il “vestito” è bossanova, un’altra può essere “jazzy” e via dicendo…
JC: Ma cos’è per te la musica?
FG: Non vorrei apparire troppo concreto e in fondo spesso rimango a bocca aperta davanti alla genialità di musiche, di ieri e di oggi, che sembrano provenire da un altro mondo per la loro perfezione creativa. Ma dentro di me sento che la musica è intorno a noi dalla notte dei tempi, ha forti poteri su di noi, anche terapeutici, e il mio approccio cerca di essere sempre artigianale e quotidiano. Non ne posso fare a meno ma non potrei neanche stare tutto il giorno ad ascoltarla soltanto o a teorizzarla o a studiarla. Devo produrre, anche fossero tre note, è un bisogno del tutto naturale.
JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla tua musica?
FG: Sono abituato da anni a lavorare con registi che associano di tutto alla musica, a partire dai colori. Per me, pur riconoscendo che nella musica per immagini (e non) ci sono delle regole che quando vengono seguite producono reazioni prevedibili in chi le ascolta, è tutto più profondo, istintivo e personale. Io associo alle mie note luoghi visitati, soprattutto, ma anche persone conosciute, modi di fare inconsueti. Spesso anche le letture che faccio, i film che vedo…
JC: Tra i dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?
FG: Dipende, domanda difficile. Tra quelli prodotti come Gazzara sono i ricordi a influenzare la scelta. E ogni album porta con sé ricordi precisi e a volte memorabili. Forse The Spirit Of Summer, che è stato registrato quasi tutto a casa. Anche l’album Early Morning del mio progetto progressive rock The Piano Room, per il modo in cui è stato registrato e ispirato, lo porto nel cuore.
JC: E tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?
FG: Per la difficoltà nel rispondere preferirei un Ipod con ricarica solare dove mettere una buona fetta di tutto ciò che mi piace. Se invece vogliamo essere cinici e portare nell’isola solo vinile…beh allora senza ordine preciso: Frank Sinatra e Antonio Carlos Jobim (l’album omonimo insieme), What’s going on di Marvin Gaye, la soundtrack di Quadrophenia degli Who, Closer to it di Brian Auger & Oblivion Express, Selling England by the pound dei Genesis, Emergency on planet earth di Jamiroquai, il primo di Galliano, Absoulte il live del James Taylor Quartet, Deodato 2, il primo Sergio Mendes & Brasil 66 e moltissimi altri.
JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?
FG: Un po’ di nomi li ho già citati prima, aggiungerei Ennio Morricone, John Barry, John Williams, Henry Mancini, Les Baxter, Herbie Hancock, Keith Emerson, Rick Wakeman, Tony Banks, Brian Auger nella musica… Stanley Kubrik, Sergio Leone, Woody Allen nel cinema, i miei genitori nella vita…
JC: E i pianisti (e/o tastieristi) che ti hanno maggiormente influenzato?
FG: Jimmy Smith, Booker T, Horace Silver, Les McCann, Mick Talbot e i citati Auger, Banks, Emerson, Wakeman,…
JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?
FG: Sono stati tanti i momenti belli, e potrei aggiungere anche adesso, visto che tornare con un album come Gazzara a distanza di 4 anni dal precedente è un bel traguardo. Con piacere ricordo un tour in Giappone e subito dopo uno in Portogallo nel 2002, numerose trasferte dal vivo a Mosca e anche l’emozione per la prima colonna sonora affidatami da un maestro del cinema come Giuseppe Ferrara.
JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?
FG: A parte ovviamente i “fratelli in armi” da sempre presenti nel progetto Gazzara – citati prima – è un piacere collaborare con un maestro fiatista (flauto, sax, clarinetto) come Dario Cecchini (Funk Off, Italian Secret Service), presente nel nuovo album anche come coautore di due brani e arrangiatore di una larga sezione fiati. Poi anche il flautista cubano Eduardo Piloto Barreto (nipote di Ray Barreto), le vocalist Lily Latuheru e Yasemin Sannino, il chitarrista toscano Marco Lamioni, che ha co-prodotto i nostri due precedenti album. Tra gli artisti internazionali che hanno collaborato con noi ho sempre un buon ricordo dell’organista inglese James Taylor dell’omonimo James Taylor Quartet, della cantante brasiliana Ithamara Koorax, e dell’mc londinese trapiantato in italia Kevin Ettienne.
JC: Come vedi la situazione della musica in Italia?
FG: Come sempre un gradino dietro a quella di altri paesi, per motivi economici ma non solo. Nonostante la crisi in altri paesi del mondo metodi alternativi per incentivare la produzione e i concerti, come il crowdfunding, hanno già una loro storia e possono funzionare. Qui da noi è tutto più faticoso e come accade in altri campi, spesso se ne approfittano in pochi del più generale calo degli introiti nel circuito musicale. Possiamo risollevarci soltanto lasciando occhi e orecchie sempre aperte su quel che accade all’estero e soprattutto concependo la musica come bisogno di espressione inarrestabile e non come veicolo per guadagnare soldi.
JC: E più in generale della cultura in Italia?
FG: Può sembrare un discorso superficiale ma quello che penso circa la situazione musicale è applicabile anche allo stato della cultura in Italia. Anzi, se dal punto di vista musicale l’Italia è una realtà produttiva (almeno nel passato) da incentivare a ogni costo, figuriamoci dal punto di vista più generalmente culturale: con tutto il patrimonio culturale che abbiamo, è un crimine non salvaguardarlo quotidianamente e non sfruttarne le immense capacità commerciali, soprattutto a livello statale.
JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?
FG: Nell’immediato futuro ci sono due colone sonore – in fase produttiva con tanto di session di registrazione in questi giorni – su due docu-film prodotti da Rai cinema. Nello stesso periodo le prove con il gruppo per presentare al meglio dal vivo il nuovo album. Nel futuro meno immediato c’è un nuovo album del progetto Hammond Express, questa volta senza cover e molto vicino al primo, con un misto di elettronica e dancefloor accanto all’organo Hammond e una serie di nuove composizioni al piano che potrebbero confluire in un prossimo album come Gazzara.