Brevi riflessioni sul Torino Jazz Festival 2014

Foto: Ferdinando Caretto









Brevi riflessioni sul Torino Jazz Festival 2014



Si è da poco conclusa la terza edizione del Torino Jazz Festival, oggi forse la maggior kermesse del Nord Italia e probabilmente la concorrente primaverile di Umbria Jazz in quanto a numeri e situazioni. Dopo il primo anno di rodaggio, che aveva scontentato un po’ tutti, a parte magari i beneficiari dei circa novecentomila euro di budget per una rassegna in fondo modesta e limitata in quanto a nomi e iniziative, il secondo TJF del 2013 aveva invece fatto gridare al miracolo per la perfetta riuscita del mega evento, nonostante i fenomeni atmosferici inclementi, che del resto si sono ripetuti anche ora, come sarebbe del resto prevedibilissimo, data la stagione: pioggia e freddo sono – sempre e ovunque – un ostacolo insormontabile per il successo (e il benessere) di massa dei molti set all’aperto.


Cos’era intanto successo dalla prima alla seconda edizione? Un cambiamento del direttore artistico: il mediatico Dario Salvatori – esperto di gossip rock – sostituito dal musicologo Stefano Zenni, conosciuto solo agli addetti ai lavori, ma di grande spessore culturale e di obiettiva lungimiranza nell’interpretare il jazz come una musica che vuole includere e non escludere; e le inclusioni nella precedente e nell’attuale edizione riguardano due momenti: da un lato accostare alla musica (che resta la principale mattatrice) altre espressioni come i film e i libri, coinvolgendo due istituzioni cittadine fondamentali come il Museo del Cinema e il Circolo dei Lettori; dall’altro presentare svariate tipologie di linguaggio jazzistico che spesso vanno anche al di là dell’idea di jazz più diffusa o consolidata.


La scelta del 2014, poi, di effettuare il TJF dal 25 Aprile al 1° Maggio, dunque in un lungo ponte compreso tra le due maggiori feste civili italiane, ha proposto anche un’idea politica del jazz stesso: si parte con Il Jazz della Liberazione, un progetto tripartito che inizia dal Museo della Resistenza con la Big band Theory (e canzoni e lettere partigiane) e approda a piazza Castello con la pathcanka ideologizzata di Daniele Sepe Und Rote Jazz Fraktion (e in mezzo, come si vedrà, il birthday di Luigi Trovesi); e si arriva alla Grande Festa del Jazz del 1° Maggio, quasi in risposta a quella romana di piazza San Giovanni, dove si alternano sette gruppi eterogenei: Salis/Angeli/Murgia/Drake il più sperimentalista, Ibrahim Maalouf il più originale, Paolo Fresu Quintet il più jazz-jazz, Elio E Le Storie Tese il più estraneo.


E qui, proprio su Elio, c’è da fare un profondo ragionamento, visti gli animi dei giornalisti torinesi scandalizzati assai prima del giorno del concerto: ma la rock band milanese – che Zenni considera un po’ come la risposta tricolore alle Mothers Of Invention di Frank Zappa – oltre l’ironia da sempre palesata (dal palco hanno ripetuto di essere un’orchestra jazz) ha avuto il buon senso e il giusto umorismo di giocare con la succitata “estraneità” e di interpretare sino in fondo l’ospitata in un jazz festival, proponendo al proprio interno la cantante Paola Folli, nota vocal coach ma anche jazz singer talentuosa. E quest’ultima “comparsata” mette al riparo dalle critiche sia Zenni sia Elio sia tutti i sostenitori delle teorie dell’inclusione o dell’allargamento. In tal senso ci sono stati episodi non certo piacevoli in passato, soprattutto a Umbria Jazz, dove per fare audience si invitavano (e si invitano tuttora) musicisti che nulla hanno a che fare con il jazz, senza nemmeno chiedere a loro un piccolo tributo, un breve omaggio o un minimo progettino in linea con la cultura jazzistica.


Per fare qualche esempio a Umbria Jazz, andava bene nel 1986 la presenza di Sting a interpretare il proprio repertorio (più qualche standard) accompagnato dalla Gil Evans Orchestra, come pure l’invito al cantautore James Taylor (che scrive talvolta song in chiave blues e folk) o a Phil Collins con una Big Band rigorosamente swing, mentre erano assolutamente fuori luogo (o fuori tema) le esibizioni dei Rem, di Patti Smith o di Elton John, presenti solo per fare (o richiamare) audience.


Nei jazz festival insomma vanno bene gli artisti che si richiamano al grande patrimonio afroamericano (blues, gospel, bossa nova, salsa, tango, tropicalismo, soul, r’n’b, certa world music), ma quando si includono i musicisti rock o pop o classici, occorre che si relazionino con il jazz (anche con un semplice tenue legame) come sta effettivamente accadendo da molto tempo. A Torino è successo, magari flebilmente, con Elio e Le Storie Tese: un gruppo che a livello tecnico è all’altezza di molte jazz band, avendo solisti e orchestrali di indubbio valore; si spera comunque che il lavoro sulle “relazioni” (jazz e “altro”) si perpetui e si perfezioni, sempre, anche in seguito, non solo a Torino.


Tornando al TJF, l’altra novità era la rigorosa, forse sin troppo professorale, distinzione tra jazzisti da auditorium e jazzisti da piazza: al chiuso i jazzmen in duo (Barron/Holland, Caine/Douglas), in trio (Battaglia), con musicazioni (Ottolini su Keaton) o in approfonditi tributi (Moholo e il Sudafrica), en plein air (e gratis) “le stelle” soprattutto nella vocalità dalla Schuur a Veloso (serata Unesco), da Avitabile a Dibango, fino al raffinato tributo beatlesiano di Di Meola. Ma il TJF ha vissuto anche quest’anno di molte sezioni per così dire collaterali: a livello concertistico in piazzale Valdo Fusi grande mainstream all’ora dell’aperitivo con il Jimmy Cobb Trio più Scott Hamilton e Sheila Jordan come ospiti. Per i libri Storie poco standard di Luca Bragalini è stato l’evento clou un po’ divistico; per il cinema sette pellicole eterogenee (alcune notissime) tra documentari e fiction: meglio lo scorso anno la rassegna su Krysztof Komeda; per l’educational uno staff della Juillard School of Music guidato da Rodney Jones.


Ma l’iniziativa più “singolare” di tutto il TJF, oltre Elio, riguarda il già citato settantesimo compleanno di Luigi Trovesi festeggiato sia con la Filarmonica Mousiké sia con l’amico Gianni Coscia e con il di lui compagno di giochi e di scuola Umberto Eco: è la prima volta che il grande semiologo si cimenta pubblicamente a parlare di jazz e c’è da essere quasi certi che la sua prolusione sarà argomento del prossimo tascabile Bompiani.


Alla fine il Torino Jazz Festival 2014 conferma quasi tutte le buone impressioni dell’anno scorso, benché, forse a causa del budget inferiore, qualcosa è stato ridotto e qualcos’altro è sicuramente migliorabile.