Audite New Musik Edition – 2013
Simone Faliva: tastiere
Lorenzo Miatto: basso
Marco Campigotto: batteria
Simone Faliva pubblica il quarto disco e ribadisce alcuni caratteri tipici delle sue produzioni. Si possono riscontrare, innanzitutto, la cura grafica e pittorica con cui viene presentato il cd. La copertina, infatti, è di un certo impatto. È condotta sui toni di un blu profondo, rappresenta una cavità vorticosa e ricorda, per certi tratti, le cover in uso negli lp’s degli anni settanta. Si riconferma, cioè, l’accoppiata suono-segno iconico, già esplorato ampiamente negli album precedenti. I titoli dei brani, poi, contengono giochi di parole e immagini surreali. Pure questo non costituisce un elemento di novità nell’esperienza del tastierista padovano. La musica di Bertibello, invece, è lontana dai dischi precedenti. Si può ritenere che Faliva abbia dato una violenta sterzata o abbia effettuato una vera e propria inversione a U.
Le opere antecedenti erano sovrabbondanti di idee, di intuizioni, magari non sempre governate al meglio, ma curiose nell’accostamento di sequenze di generi dissimili, recitativi compresi. Il tutto era orlato, poi, da una marcata cornice elettronica. Qui il musicista veneto semplifica molto il suo discorso. Ci troviamo di fronte ad un ritorno indietro nel tempo con un omaggio, neppure dichiarato, alle atmosfere degli anni settanta, pre-progressive rock. Il musicista veneto utilizza organo Hammond e piano elettrico lavorando con temi orecchiabili su cui elabora abbordabili variazioni. Accanto a lui sono schierati il walkin’ bass di Lorenzo Miatto e la batteria altrettanto sintonizzata su uno stile “d’epoca” di Marco Campigotto. Siamo in area funk, o in ambito rock non pungente e aggressivo, in verità piuttosto addomesticato. L’unica traccia che si distacca dalle altre è Fiffy la boom, eseguita con la sola fisarmonica. In questo pezzo si rincorrono contrappunti classicheggianti, intermezzi solenni e arie popolari d’invenzione, in un mix segnato da una notevole ripetitività di blocchi giustapposti, funzionale a rendere un clima, una particolare atmosfera. È questo il vertice dell’intero cd. Per il resto sfugge il senso di una riproposizione abbastanza diretta, se non letterale, di un genere, di una formula, l’organ trio modello Brian Auger, senza che si individui una vera rivisitazione, una riappropriazione personale di un repertorio, attraverso composizioni significative e nuove a tutti gli effetti.
Per un artista che ci aveva abituato a ben altri sussulti, è il passo deciso verso una leggibilità manifesta di un cd chiaramente più commestibile de “Il quinto chicco del melograno” e capace di rimuovere eventuali “sordità selettive” (come da titoli del terzultimo e penultimo cd), perlomeno come obiettivo di minima (o di massima).