Rune Grammofon – RCD 2147 – 2013
Arve Henriksen: trombe, field recording, voce
Jan Bang: programming, sampling
Lars Danielsson: contrabbasso
Erik Honoré: synth bass, sampling, drum programming, voce
Ingar Zach: percussioni
Stahlquartett:
Jan Heinke e Alexander Fülle: violino
Michael Antoni: viola
Peter Andreas: violoncello
con materiale di repertorio di:
Eivind Aarset: chitarre
Jon Balke: pianoforte
Christian Wallumrød: tastiere
Autentica celebrazione discografica per Arve Henriksen, non potendo definirsi meno che monumentale il colosso in vinile con bonus digitali Solidification, edito da Rune Grammofon pochi mesi orsono, che oltre all’inedito in oggetto mette in cantiere per il 2014 anche il doppio CD Chron + Cosmic Creation.
Un tale plebiscito, di dimensioni pop e più probabile per star del passato (stante l’attuale realtà del disco fisico) almeno farà ulteriormente meditare sulla risonanza delle scelte di qualità, sia pure con ingredienti elaborati da almeno quattro decadi in parte dalle fucine del jazz dell’estremo Nord e in parte dalle frange più speculative del pop non allineato.
Si ripropongono con morfologie in parte già sperimentate la dimensione contemplativa e il culto naturale nei paesaggi di brace e le torbide nebbie, a contorno del fiato di un ottone assai spoglio nel disegnare la germinazione della vita, che s’impenna nel drastico corpo di pulsazione ritmica, flottante e insieme potente di Saraswati, e subito disvela il potenziale di un fascinoso combo tra cui spicca la prestazione unica delle liquidità basse di un ottimamente ritrovato Lars Danielsson così come delle fluviali elettroniche di Erik Honoré e dei metallici reticoli di Ingar Zach.
La figurativa ma più spesso rarefatta sequenza articola una successione di stati emotivi , dal magmatico Le Cimetière marin, di lunare desolazione che giunge a spoliazione estrema nel vuoto cosmico di Abandoned Cathedral, convergendo verso l’epilogo dell’insolita pop-song Shelter from the Storm, non priva di quei lirismi apparentemente più calligrafici repertabili anche in opere di qualche maggior respiro quali la complessa e precedente Cartography.
Attingendo e ponendo in gioco, nel laboratorio di questo volitivo e insieme fragilissimo soundscape, materiali quali gli sfumati, ipnotici orientalismi, le suggestioni inusuali della vocalità da choir-boy protestante, le desertificazioni formali, i luoghi emotivi e le valenze d’azione del Sogno, il massimo grado d’attenzione esplicitata verso i più intimi meccanismi della Vita, vengono variamente agiti con il concorso non sempre a parti determinate dal serico e ondulatorio tappeto degli archi, i sobri e concentrati passaggi canori di quadratura pop e – curiosità non fine a sé stessa anzi piuttosto organica – la partecipazione semi-virtuale, in forma di materiale pre-registrato (ma non solo, si direbbe) di grandi sodali quali il centellinato Jon Balke, il curioso Christian Wallumrød o il livido Eivind Aarset, che convergono su tali rotte dell’emozione mutante con tratto essenziale e variamente sapiente, alieno da particolarismi identitari o caratterizzazioni di firma, peraltro poco praticabili in un melting di così peculiare sostanza.
Giunte a maturità ma non certo ancora a compimento, le meditazioni dinamiche e le contemplazioni attive e condivise di Arve e della sua evolutiva open-music segnano un’altra tappa, pur rimanendo apertamente in gioco, senza lacerazioni stilistiche rispetto a quanto elaborato entro i percorsi creativi propri e di quella nordicità di differenti trasparenze ed angolose ispirazioni, e tuttora dinamicamente sfingea.