Foto: la copertina del disco
Outrush, o l’arte della fuga.
Kekko Fornarelli è un pianista e compositore curioso, creativamente in conflitto con se stesso. Irrequieto nelle scelte definitive e perennemente sospeso tra l’essere stanziale o fuggire verso mondi nordici che stridono con la sua radice magno-greca, intesa in termini culturali e itineranti. Forse è in quello stridore culturale la chiave per comprendere il jazz di Fornarelli, una musica pregna d’influenze ma con una personalità ben definita e costruita, un nucleo di suoni che gli appartengono e lo identificano come propositore di modi, altri, d’intendere il jazz. Outrush ne è una conferma, una speculare rappresentazione del modus vivendi di Fornarelli, un’irrequieta ed esemplare esecuzione in trio, che poi è la sua dimensione ideale, uno spaccato documentato della sua “vita” in jazz, oggi, tra “fughe” e “ritorni”.
Jazz Convention: Kekko Fornarelli, hai vissuto per diverso tempo all’estero. Cosa significa per te avere uno sguardo oltre i confini italici?
Kekko Fornarelli: Sono sempre stato, fin dalla nascita, una persona curiosa e bramosa di conoscenza. Solo poco tempo fa mio padre mi ha anche confessato che all’età di quattro anni sentenziai, durante una cena di Natale, che da grande avrei girato il mondo e fatto il pianista. Aneddoti a parte, è stato sempre molto importante per me sapere di più, avere quanti più scambi e stimoli possibili, avere uno sguardo dall’orizzonte lontano. Aggiungerei che per noi musicisti poi, che per di più abbiamo scelto di far parte di un universo musicale, quello del jazz, che rappresenta in qualche modo “libertà, condivisione, gioco” (ma questa è e resta una mia opinione personale), dovrebbe risultare quanto mai improponibile il contrario, cioè il rinchiudersi in quattro mura, siano esse intese come scelta bieca di stile o come semplice limite geografico.
JC: Nel 2011 hai messo in piedi il tuo nuovo trio…
KF: Esatto, anche se l’organico dell’attuale Kekko Fornarelli Trio si è delineato solo ad inizio del 2013, in pieno corso del mio primo tour internazionale, con cui ho portato il mio penultimo album, Room of Mirrors, in 23 Paesi nel mondo con quasi 150 repliche. Alla dimensione del trio ci son arrivato dopo un po’ di anni, esperimenti e ricerca dei musicisti/uomini giusti. È stata una ricerca lunga, ottusa e non priva di “incidenti di percorso”, ma alla fine devo essere assolutamente fiero della mia scelta: Giorgio Vendola al contrabbasso e Dario Congedo alla batteria sono i compagni di viaggio ideali. Entrambi hanno sposato appieno la mia idea, condividendo un lungo e intenso percorso di ricerca e di duro lavoro (la nostra è quasi una preparazione militare…) ben prima che ci fosse, sull’altro piatto della bilancia, una soddisfacente attività live. Loro rappresentano per me una assoluta certezza, professionale e morale. Loro sono, con me, il Kekko Fornarelli Trio.
JC: Ci puoi fare un punto sulla tua produzione discografica?
KF: Ad oggi gli album che portano il mio nome sono quattro, ma vanno divisi in due momenti professionali che vorrei distinguere. Mi sono avvicinato al jazz verso i 18 anni, dopo infanzia e adolescenza immersi negli studi classici. Non ho mai studiato jazz in maniera accademica: il mio è stato un percorso istintivo, fatto di ascolti, scambi ed esperienze “suicide” con i musicisti più vari, e non privo di quegli “errori” iniziali che accomunano tanti musicisti. Che tipo di errori? Beh, ad esempio dimostrare che sei bravo a suonare questo o quello, come questo o quello. Di sicuro ho sempre amato scrivere e già nei miei primi due album, Circular Thought (WideSound, 2005) e A French Man in New York (WideSound, 2008) c’era una forte voglia di comunicare qualcosa di personale. Ma mi resi conto che il mainstream non era la strada giusta per me e per la mia scrittura. Avevo necessità di qualcosa di diverso, per potermi esprimere appieno e onestamente, prima fra tutti con me stesso. Decisi di fermarmi a pensare e, per tre anni non ho fatto altro che cercare e riflettere su ciò che volevo veramente dalla musica. Tutto questo mi ha portato al trio, a un nuovo approccio sonoro e a Room of Mirrors (Auand, 2011), primo esperimento di questa nuova fase, coincisa (ma non credo sia un caso) con l’inizio dei miei tour e con la possibilità di far conoscere la mia musica nel mondo. Outrush (Abeat, 2014) è il nuovo capitolo, un album sicuramente più “consapevole” rispetto al precedente. Lo scorso anno ho anche arrangiato e coprodotto Mar Endins (Freshsound, 2013), album della cantautrice catalana Rusó Sala ed è in preparazione il primo album di Shine, un altro mio progetto, un insolito duo a metà tra acustica ed elettronica, tra jazz e trip-hop, con il cantante Roberto Cherillo, la cui pubblicazione é prevista per il prossimo anno.
JC: Outrush è il tuo ultimo disco. Perchè questo titolo e cosa significa.
KF: Come già accennato, Outrush prosegue quanto iniziato con Room of Mirrors tre anni fa. Oggi sento di essere un musicista onesto e di cercare costantemente e nel modo più semplice e naturale possibile un dialogo con il pubblico e con i musicisti che mi circondano; desiderando quindi comunicare qualcosa e ormai consapevole di poterlo fare “a modo mio” (certo al di là di quelli che possano esserne i risultati finali) ho deciso di non tornare indietro rispetto alla mia scelta di aprirmi, stilisticamente parlando, a tutte le varie forme di contaminazione che sento a me congeniali e che mi piacciono (come il rock o il trip-hop). Essere me stesso fino in fondo per poter essere naturale con la mia musica. Outrush è per l’apunto un sinonimo di fuga, ma da intendersi come una fuga verso la propria essenza.
JC: Il disco contiene otto composizioni scritte da te, tranne la prima, The Big Bang Theory in associazione con Alemanno e Congedo. Come nascono questi pezzi? Ce li puoi raccontare brevemente.
KF: Il mio approccio alla scrittura è un po’ quello che si ha con le colonne sonore: partendo da una serie di immagini, creo un tessuto sonoro in grado di rappresentarle o, meglio, trattandosi di sola musica, di ricrearle. In più, è venuto naturale per me affrontare questa nuova fase prendendo spunto dalla mia vita e dalle mie esperienze personali. Oggi, sento di volere prepotentemente un dialogo con il pubblico e cerco di avere una conversazione onesta e semplice con esso. Ogni brano racconta una storia che ha a che fare con me, vere e proprie istantanee di vita personale.
The Big Bang Theory: due anni fa, quando ho cominciato a girare il mondo con Room of mirrors, ho vissuto una sorta di esplosione, che dal livello professionale si è ovviamente ripercossa sulla sfera personale, facendo sì che si rompesse il guscio in cui ero intrappolato. Una sorta di nuova nascita. La nascita di un universo quindi: il big bang. Dal buio fino all’esplosione, in tutta la sua irruenza incontrollata, per poi trovare l’equilibrio, che sorprendentemente viene interrotto dal ritorno del caos.
Drawing Motion: seduto su un treno, accanto al finestrino. Lo sguardo al paesaggio, o meglio, a un punto indefinito che evolve, scorre, si trasforma. Leggerezza, bellezza. Il pezzo emula proprio un treno in movimento.
Weeping Souls: Il mito della metà della mela che Platone narra nel Simposio. Si sa, è solo un mito. L’anima che affannosamente cerca la propria metà all’esterno da se è tormentata e urla disperata. Piange nella propria solitudine.
Reasons: Una storia d’amore in ogni sua sfumatura, positiva e negativa. Nella parte centrale i due amanti conversano, spiegandosi l’un l’altro le ragioni del proprio amore. L’uomo è il contrabbasso, suonato con l’arco; la donna è il pianoforte.
What Kept You So Late?, vale a dire Perché sei venuto così tardi?: È un verso di Aspettando Godot di Beckett. Estragon chiede a Vladimir perché sia arrivato così tardi, confermando per l’ennesima volta l’atmosfera dell’attesa senza fine che contraddistingue l’opera intera. Il brano rappresenta proprio questa attesa, piatta, frenata, snervante, sdrammatizzandola nella seconda parte e venandola di desiderio d’azione per interromperla.
Like a driftwood: Driftwood è il legno che viene trasportato a riva dall’acqua. La voce narrante di questo pezzo è un albero, forse una sequoia, che sta per essere trasportata in una segheria in Nord America. Il brano è diviso in tre parti, dal tenore differente. Nella prima parte l’atmosfera è estremamente triste: l’albero ha compreso che non rivedrà mai più il luogo meraviglioso in cui è nato ed in cui ha vissuto per centinaia di anni. Nella Seconda parte (breve) l’albero viene tagliato. Intervengono lo sconforto e la paura – Accordo sospeso – Poi c’è il lancio nel buio .., l’albero chiude gli occhi nel momento in cui lo lanciano nella corrente del fiume. La terza parte è magica… L’albero riapre gli occhi.. e, trasportato dalle dolci acque si riempie di bellezza, osservando il mondo da una prospettiva diversa. Pian piano impara a godersi il suo nuovo viaggio, a dimostrazione che è possibile guardare al significato più ampio e bello di ogni cosa, anche la più tragica.
Don’t hide: è la prima volta che scrivo per un cantante. E neanche uno qualsiasi. Il mio migliore amico: voce straordinaria ed eterea. Il brano è un dialogo onirico fra il sé reale e quello immaginato, desiderato. Il primo chiede al secondo di venire fuori e di lasciarsi vivere. Di non nascondere la propria meravigliosa anima e darsi un’occasione di rinascita a nuova vita. Don’t hide your beautiful soul, non nascondere la tua bellissima anima.
Outrush: è la fuga irruenta, improvvisa e violenta verso la propria essenza. Niente più compromessi, niente più filtri. La consapevolezza che tutto oramai è guasto: media, politica, arte, rapporti. Inizia la fuga. Tutto il pezzo è una fuga. Tensione, affanno, mai guardarsi indietro. Mai più!.
JC: Outrush è realizzato in trio con Giorgio Vendola e Dario Congedo. Ritieni che questa sia la tua formazione ideale? Il tuo modo di esprimerti e suonare jazz?
KF: Ad oggi, si. Al di là dei vari progetti che ho attualmente in piedi, penso che il trio rappresenti per me la dimensione ideale per potermi esprimere con la mia musica, dandomi la possibilità di una vastissima gamma espressiva, pur lasciandomi al tempo stesso libero di vivere il più profondo intimismo con il pianoforte. Resta pur sempre il fatto che sono una persona curiosa, quindi un continuo sperimentatore: in Outrush, nella traccia intitolata Don’t Hide ho voluto inserire la voce di Cherillo. Quindi, chissà….
JC: Quali sono i progetti futuri di Kekko Fornarelli?
KF: Il mio unico desiderio, credo condivisibile da tutti i miei colleghi, è quello di poter vivere pienamente della mia passione e, per questo, continuo personalmente ad investire con tutte le forze e risorse affinchè ciò possa essere possibile. Per quanto riguarda il presente ci sarà di sicuro tanto live, in estate/autunno del 2014 con il progetto Shine con cui saremo, in Estremo Oriente, Russia, Brasile e Danimarca; poi sarà la volta, a partire da gennaio e per tutto il 2015, del nuovo tour internazionale del trio con Outrush. In quanto a progettualità, come già accennato, è in preparazione il primo disco di Shine, la cui uscita è prevista per il prossimo anno. Sono in fase di scrittura della nuova musica per il trio per il capitolo successivo a Outrush, ed è in preparazione un nuovo progetto, per piano solo, elettronica ed orchestra, che vedrà il suo debutto il prossimo inverno. Sempre e tutto fuori Italia…