Discografici, etichette, documentari

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Discografici, etichette, documentari

Le 4 storie di Lion & Wolff, Ertegün, Schwer, Eicher




Alfred Lion e Francis Wolff (Blue Note), Ahmet Ertegün (Atlantic), Hans George Brunner Schwer (MPS) e Manfred Eicher (ECM) sono figure protagoniste nella storia del jazz per creare e dirigere quattro label fondamentali nello sviluppo del jazz moderno e contemporaneo, oltre altri generi più o meno affini. Il paragone fra loro potrebbe fermarsi qui non solo perché esistono tanti altri nomi che contribuiscono a far grande il jazz attraverso i dischi, ma per il fatto che si tratta di epoche, scelte, politiche economico-culturali anche molto differenti le une dalle altre: sono accomunabili però dall’essere immortalati in quattro rispettivi film documentari che raccontano sia le vite personali sia le imprese discografiche di gente che dal dopoguerra a oggi scopre o lavora con quasi tutta l’esistenza musicale afroamericana da Thelonius Monk a Bud Powell, da Ray Charles a Ornette Coleman, da Oscar Peterson a Friedrich Gulda, da Keith Jarrett a Jan Garbarek, tanto per elencare qualcuno.



Alfred Lion e Francis Wolff


I due amici ebrei berlinesi Alfred Lion (1908-1987) e Francis Wolff (1907-1971) fuggono dalla barbarie nazista e approdano negli Stati Uniti portandosi con loro la passione per il jazz che nella Germania pre-hitleriana è molto amato e seguito da giovani, artisti, intellettuali. Già nel 1939 i due amici (e colleghi) fondano la Blue Note allo scopo di registrare, produrre, vendere dischi jazz, facendo subito incidere alcuni maestri del boogie-woogie e poi del dixieland revival, per interessarsi quasi subito, nell’immediato dopoguerra, alla rivoluzionaria avanguardia boppistica, dando credito a un pianista che molti ritengono “folle” o “stonato”: è Thelonius Monk che licenzia alcuni notevoli 78 giri in solo e in quintetto. Ma la svolta (o meglio la fortuna) dei due tedeschi avviene con l’avvento della tecnologia del long-playing, la cui “lunga durata” favorisce un nuovo tipo di approccio all’improvvisazione jazzistica, facendo maturare velocemente l’estetica dell’hard bop, di cui la Blue Note per almeno quindicennio, dal 1953 al 1968, vanta quasi l’esclusiva assoluta, confermandosi la maggior etichetta indipendente per il jazz nero (e per molto tempo elevatasi a simbolo di jazzità); tutti gli hardboppers registrano almeno un LP con Lion e Wolff e alcuni jazzmen firmano la loro migliore discografia. Integerrimi nelle scelte durante gli anni dell’hard bop – mai un cantante né esponenti di mainstream, dixieland o bossa nova allora peraltro adottata da swinger e bopper – Lion e Wolff aprono la Blue Note al free jazz già a metà Sixties, mentre poco più avanti, quando ormai non hanno più interessi economici diretti, accettano di malgrado le nuove ondate jazzrock e funk, che per l’etichetta significano risultati qualitativamente orrendi rispetto alle major, come Columbia, che invece – grazie a Miles Davis, ma non solo – fanno della fusion un’Arte con la A maiuscola. Il vero rilancio della Blue Note avverrà a metà degli ani Ottanta quando le nuove generazioni jazzistiche – i cosiddetti Young Lions – recuperano proprio la forma hard bop trascurata per oltre un decennio sia dal crossover sia dalla new thing.


Su Lion e Wolff esiste un film interessantissimo Blue Note. A Story Of Modern Jazz: più che la storia della celebre etichetta newyorchese, l’eccellente documentario (1997) di Julian Benedikt è un affettuoso omaggio ai fondatori della label che, tra il 1939 e il 1966, con un migliaio tra 78 e 33 giri, rivoluziona la discografia e forse l’evoluzione del jazz medesimo. Il film evita l’encomio e il biografismo dei fondatori: Lion e Wolff vengono ricordati da amici, familiari e musicisti per l’effettivo contributo alla vita artistica statunitense, dove, con loro, l’album long-playing diventa fenomeno culturale a sé, persino svincolato da obblighi commerciali (e comunque, fin da subito, ripagato dal successo di pubblico e critica). Il lungometraggio procede a flash, a mosaico, con interviste ai superstiti, tra i jazzisti, dell’avventura Blue Note (Herbie Hancock, Max Roach, Horace Silver, Johnny Griffin, Bob Cranshaw, Lou Donaldson, Tommy Turrentine), mostrando rari spezzoni con i giganti (il citato Monk, Sonny Rollins, John Coltrane, Art Blakey, Dexter Gordon, Jimmy Smith, Lee Morgan) e naturalmente le bellissime copertine, merito spesso delle altrettanto stupefacenti fotografie, in bianco e nero, del timido Wolff, mentre il più estroverso Lion resta decisamente calato nel ruolo di talent scout.


Ahmet Ertegün


È la storia di uno dei tanti emigranti che, negli Stati Uniti, diventa famoso e miliardario, grazie a caparbietà e passione, intuito e competenza, investendo soldi (pochi, all’inizio) e sacrifici (molti, quasi sempre), laddove i bianchi un po’ snob e razzisti non immaginano nemmeno che si possano scoprire autentici tesori in senso culturale ed economico. Ahmet Ertegün (1923-2006) non arriva in USA da esule o da povero, bensì come figlio dell’ambasciatore turco: la passione per il jazz nasce in lui da ragazzo già a Istanbul e allorché deve optare tra la carriera diplomatica e quella di discografica non ha dubbi: nel 1947 fonda l’Atlantic allo scopo di far conoscere anche al pubblico di pelle chiara le nuove forme popolari black, come il r’n’b in primis, con il lancio di un giovane artista, Ray Charles, che trascende i generi per creare un’esplosiva miscela di gospel, cause, funky e jazz. E proprio quest’ultimo, il jazz, sarà una costante nella produzione di Ahmet che – come Lion e Wolff e a differenze dei freddi (e spesso indifferenti) manager delle major discografiche – segue passo dopo passo le fasi di ogni disco, dando suggerimenti, lanciando consigli, scrivendo persino canzoni, ma lasciando piena autonomia ai musicisti stessi. Tuttavia il jazz – tra l’altro di ogni tipo, in pratica l’intero evolversi del sound postbellico dal cool al mainstream, dal dixieland al western coast, dalla Ford streaming music al free jazz, dal pop-jazz alla post-avanguardia – è solo un mercato di nicchia per Ahmet, il quale si orienta fin da subito a fare dell’Atlantic la maggior etichetta indipendente, salvo poi venderla al colosso Warner, pur restando lui direttore artistico, orientandosi sempre più verso il rock e il pop con grossi successi commerciali dai Led Zeppelin ai Rolling Stones, tanto per nominare due gruppi-chiave.


Per saperne di più c’è pure 60 Atlantic Records. The House That Ahmet Built, che è il bellissimo documentario che Susan Steinberg firma, nel 2007, esclusivamente con immagini di repertorio, s’incentrandolo sulla vita di Ahmet quale Re Mida della maggior etichetta indipendente, ceduta alla Warner vent’anni dopo, ma per altri venti ancora diretta personalmente, con spirito intuivo, al contempo artistico e manageriale. In quarant’anni, fino alla morte improvvisa, quasi simbolica, cadendo dal palco, dopo un concerto degli amati Stones, Ahmet riesce a costruire una casa per la black music, portando al successo, oltre il citato Ray, Ruth Brown, Big Joe Turner, Aretha Franklyn i Clovers, i Drifters, a scoprire giovani talenti rock, a creare, di recente, una Hall Of Fame del jazz per Wynton Marsalis. Vicino dunque al soul, al r’n’b, persino al pop, Ertegün lascia al fratello Nesuhi il compito di lanciare l’avanguardia sia nera sia bianca (Charles Mingus, John Coltrane, Ornette Coleman, Jimmy Giuffre, il Modern Jazz Quartet, Lennie Tristano, Max Roach, Roland Kirk su tutti), restando però sempre fedele alle radici: «Ciò che fu determinante – dice Ahmet alla fine del film – quando io e mio fratello arrivammo in America, è che eravamo fans del jazz. E amavamo la musica afroamericana, in un momento in cui gli arti neri non erano aiutati dalla società statunitense. Abbiamo tentato con successo non solo di aiutarli ma anche di costruire qualcosa (…) E sono soprattutto fiero degli artisti che ci hanno aiutato a farlo.»



Hans George Brunner Schwer


Si vede assai poco, nel documentario Jazzin’ In The Black Forest il signor Hans George Brunner Schwer (1927-2004): ricco industriale tedesco, con la passione per il jazz, che s’inventa, quasi come personale gingillo, un’etichetta discografica soprattutto di musicisti jazz: in breve tempo, dalla piccola località nella storica Foresta Nera, Viligen, sede comunque della Basf (tra le maggiori industrie chimiche applicate alle tecnologie elettriche, la prima ad esempio a brevettare un sistema di audio cassette) si concretizzano nuove idee. Brunner fonda dunque la MPS – prima label indipendente tedesca, ovvero Musik Produktion Schartzland (acronimo altresì di Most Perfect Sound) – che offre dischi di grande pregio artistico e di notevolissimo livello tecnico, diventando e restando per circa un ventennio un riferimento assoluto per la musica afroamericana sia statunitense (swing e mainstream o al contrario free jazz) sia europea (chiamando a sé i migliori solisti continentali) sia addirittura lavorando in anticipo di circa vent’anni sulla cosiddetta world music grazie all’idea del musicologo Joacquin E. Berendt (chiamato a collaborare per l’indiscussa competenza di storico del jazz senza pregiudizi) di una collana Jazz Meet The World che mette a confronto hardboppers e freemen da un lato con formazioni etniche dall’altro. E tutto questo viene reso possibile dall’apertura mentale di Brunner che – va ripetuto – detesta esibizionismi e protagonismi lasciando la direzione artistica della MPS a persone colte, impegnate, autorevoli: per sé si riserva solo i pianisti, dallo stride al post-swing, riscoprendo una Milt Bruckner o valorizzando appieno un Oscar Peterson.


Completamento audiovisuale al quasi omonimo volume di Klaus Gotthard Fischer MPS Jazzin’ in the Black Forest, il film sunnominato del 1999 racconta la storia dell’etichetta attraverso immagini di repertorio, estratti (troppo brevi!) di jam e concerti, testimonianze o interviste ai tanti protagonisti di un’esperienza discografica, ma anche umana e solidale, grazie al patron/produttore Hans George Brunner Schwer. La MPS dal 1968 al 1983 sforna oltre 700 ellepì dagli studios atrezzatissimi a villa HGBS, che vedono il passaggio di eccelsi solisti dal dixieland al post-free, tra avanguardie e tradizioni, ibridi fusion e anticipi world. Il film su DVD ha come piatto forte il documentario di Elke Baur di un’ora e mezza in soluzione unica (purtroppo senza i necessari capitoli divisori) con rari filmati su Oscar Peterson, Jean-Luc Ponty, Albert Magelsdorff, Dave Pike, Friedrich Gulda, mentre George Duke, Lee Konitz, Monty Alexander, George Gruntz, Eberad Weber, Wolgang Dauner si prodigano a narrare i segreti della qualità MPS, nata dall’industria chimica SABA. L’impressione è quella di un’allegra famiglia riunita da Schwer, il mecenate appassionato che, forse senza rendersene conto, dà vita a un originale jazz euroamericano e alla valorizzazione di vecchi e giovani talenti (Rava e Gaslini per l’Italia). Gli extra del DVD – istantanee, cartoline, riproduzioni di 100 copertine – non bastano: ogni jazz avrebbe il diritto di pretendere e gustarsi per intero qualcuna delle splendide performance (dai fratelli Kuhn allo stesso Mangelsdorff con Mouzon e Pastorius, ad esempio) ridotte o frazionate in un ‘opera comunque notevole sotto il profilo storico.



Manfred Eicher


Ha sempre un po’ l’aspetto di tenebroso ragazzo, un ex hippy che porta ancora il capello lungo e il baffo spiovente: eppure sono trascorse oltre quaranta primavere da quando a Monaco di Baviera, Manfred Eicher fonda l’ECM, etichetta divenuta in poco più di un lustro, la label indipendente trendy per eccellenza in Europa e poi nel mondo, prima nel jazz e poi in altre musiche importanti: la classica, la contemporanea e persino una sorta di world music assai dotta che egli stesso promuove creativamente, magari lanciandolo quale inconscio marchio distintivo della casa discografica medesima. Per Manfred Eicher – che, nato a Lindau nel 1943, inizia venticinquenne con il free jazz pubblicando LP di solisti afroamericani ed europei, cogliendo già le tante metamorfosi in atto all’interno della ricerca sonora improvvisata – il disco di svolta è Facing You di Keith Jarrett, un piano solo album dove il tastierista di Allentown si scosta notevolmente dal fare ardimentoso di quegli anni (spesso vicino alla sperimentazione radicale) per regalare una musica variegata, ritmica e suadente, dove sono avvertibili notevoli sincretismi sia classici sia folklore ci in una sublimazione estatica che piace subito al pubblico meno volubile e più moderato della grande famiglia jazzistica. Facing You vende abbastanza bene, tuttavia la svolta clamorosa arriva sei anni dopo, con il Köln Concert, doppio LP (e ora unico CD) dal vivo appunto a Colonia, dove le idee precedenti vengono per così dire espanse, semplificate, talvolta ammorbidite in una cantabilità in grado di sedurre il pubblico di massa (anche giovanile). Ed è qui che nasce il mito di Jarrett e di rimbalzo anche quello di Eicher, che pure non è un personaggio mediatico, alla stregua di Ahmet Ertegün (Atlantic), ma nemmeno un semplice ricco appassionato come il conterraneo Hans George Brunner Schwer (MPS) o l’esule braccato sull’esempio di altri due tedeschi celebri Alfred Lion e Francis Wolff (Blue Note).


I colpi messi a segno da Manfred sono comunque molti altri, a cominciare da Jan Garbarek, plurisassofonista norvegese, già partner dello stesso Jarrett con una ritmica scandinava alla fine dei Seventies, ma che molto più avanti con il CD Officium incontra l’Hilliard Ensemble, fondendo jazz e polifonia antica con risultati i strepitosi. Recente è altresì la scoperta di un altro norvegese il trombettista Nils Petter Molvaer, con Khmer per ECM raro esempio di jazz elettronico, sia per sofisticatissimo, “benedetto” da Eicher grazie a un sound però sospeso ed etereo, quasi la versione cool e intimista del Miles Davis jazzrock. In altri territori Eicher riesce a popolarizzare, quasi fino a una consacrazione pop universalista, via via altri tre musicisti-chiave: il compositore estone Arvo Part, capostipite della scuola baltica che recupera le tradizioni sinfoniche in veste mistica; la greca Eleni Karaondou che, da scrivere colonne per il cinema e il teatro, sempre grazie alla bacchetta magica di Eicher, diventa un’autrice “globale”, senza mai rinunciare alla propria etnicità; l’argentino Dino Saluzzi che al bandoneon nobilita la radice tanghera in un contesto assai più elaborato, persino più originale di un Astor Piazzolla.


Ma l’elenco sarebbe troppo lungo, ragion per cui su Manfred Eicher si può rimandare al DVD Sounds And Silence, che dovrebbe essere una monografia – come suggerisce il sottotitolo Travels With Manfred Eicher – sul patròn della ECM, ma il protagonista – in quest’ottimo docu-film di Peter Guyer e Norbert Wiedmer – ha l’umiltà dei grandi di mettersi da parte e far suonare (e vedere) la musica dei suoi protetti/prediletti: e quindi le immagini scorrono, attraverso belle panoramiche sulle città da lui professionalmente visitate e amate (Tallin, Atene, Cartagine, Bergamo, Oslo, Copenaghen, ovviamente Monaco di Baviera), mostrando gli artisti all’opera, negli spazi più eterogenei, non solo studi di registrazione, ma anche chiese, camerette, tangherie, anfiteatri dall’acustica perfetta. I larghi sprazzi visivi di prove e concerti sono alternati a brevi significati commenti dei singoli protagonisti: Gianluigi Trovesi, Gianni Coscia, Anouar Brahem, Marilyn Mazur, Nik Bartsch, Anja Lechner e i già citati Garbarek, Part, Saluzzi, Karaindrou. Il lungometraggio è raffinato e seducente proprio come i migliori album ECM e alla fine il ritratto di Manfred emerge con le inquadrature che lo vedono prodigo a dar consigli, davanti o dietro le quinte, sempre accanto al mixer, assorto negli ascolti, decisionista (quando ad esempio chiama al telefono Stefano Bollani per sapere in pochi secondi se preferisca Piano Solo o Solo Piano in copertina) e soprattutto attentissimo, come dice il titolo, ai suoni e al silenzio.