Ricordo di Gian Mario Maletto

Foto: Amedeo Novelli, ©2012 Andy Magazine










Ricordo di Gian Mario Maletto.


Gian Mario Maletto, firma storica del giornalismo jazz italiano, è scomparso venerdì 20 giugno 2014, all’età di 86 anni. Jazz Convention pubblica, come tributo alla figura gentile e sempre vivace di Maletto, l’intervista realizzata da Guido Michelone presente – insieme al cappello introduttivo che potrete leggere di seguito a queste note – nel volume I mestieri del jazz (Guido Michelone, Educatt, Milano 2003).


Con Gian Mario Maletto, nonostante la mia quasi ventennale collaborazione con la rivista “Musica Jazz”, ci siamo visti solo un paio di volte, anche se al telefono il numero andrebbe moltiplicato per tre zeri, non senza dimenticare che oggi con la posta elettronica si bypassa anche la “fatica” di alzare la cornetta e di improvvisare un dialogo. Queste del resto sono le contraddizioni del giornalismo (non solo jazzistico) di oggigiorno: prima il fax e il fonogramma, poi i computer e le e-mail hanno azzerato le distanze spaziotemporali, ma purtroppo hanno annullato i contatti fisici, dunque umani, le cose che una volta avvenivano o si facevano “di persona”. Ed infatti, senza quei due incontri “live”, per usare una terminologia jazzistica, non potrei forse parlare di Gian Mario, di questo fantastico giornalista, che è la dimostrazione vivente di come questo mestiere spesso ingrato e che dall’esterno viene giudicato talvolta molto male – complice un immaginario cinematografico teso a descrivere il giornalista senza mezzi termini ai due estremi: o come un bullo gangsteristico o come un pedante sapientone – sia in realtà qualcosa di estremamente corretto, serio, fantasioso e al contempo vivace e divertente. In tal senso Gian Mario non è né il bellimbusto né il saccente della tradizione filmica (soprattutto hollywoodiana), mentre risponde benissimo all’idea delle cinque W (vu doppie) che lo stesso giornalismo americano ha teorizzato quale codice di autodisciplina professionale. L’America, quando vuole, sa essere una grande nazione, in senso liberaldemocratico: è una nazione giovane, libera, spregiudicata, ma anche scrupolosa e civile, molto spesso dotata pure di felice creatività; quali pesi di una stessa bilancia potrei infatti collocare da un lato appunto le cinque W e dall’altro proprio il jazz, forse l’arte-simbolo del XX secolo. Dunque le cinque W: who, what, where, when, why, ovvero chi-cosa-dove-quando-perchè, ossia le regole che un buon giornalista deve rispettare e saper rispettare e saper far rispettare per una informazione sana, efficiente e credibile. Gian Mario nel giornalismo jazzistico è tutto questo e forse anche qualcosa in più: non è poi così scontato che nel jazz, una musica tutto sommato fuori dai grossi giri economici come ad esempio il rock, e non ancora intaccata (almeno per il momento) dai vezzi più o meno accademici della cosiddetta musicologia classica – dunque jazz quale fenomeno estraneo alle logiche del business o del potere intellettuale – si trovino sulla piazza molte persone in grado di rispettare la deontologia professionale in ambito mediologico. Anche nel microcosmo del giornalismo jazzistico italiano prevalgono spesso le invidie personali, le chiusure aprioristiche, gli individualismi sfrenati, i pennivendoli super-prezzolati, i capricci da primadonna o le leccate di piedi verso i potentati di turno. Se però devo indicare un nome che da sempre ha preso le distanze verso tali meschinerie allora dico Maletto, ultimo grande erede di un giornalismo all’antica, come ancora ostinatamente riesca da oltre mezzo secolo a portare avanti.



Jazz Convention: Come hai incominciato ad ascoltare questa musica? E come sei diventato giornalista jazz?


Gian Mario Maletto: Ho un fratello maggiore di cinque anni. Quando io ne avevo dodici orecchiavo i suoi dischi e la malattia mi ha preso subito. Al ginnasio litigavo per far capire che non c’era poi ‘sta differenza di qualità tra West End Blues di Armstrong e un valzer di Chopin (allora stare dalla parte del jazz, vietato perfino nominarlo, sapeva di fronda e includeva dei rischi, mentre siamo poi venuti a sapere che intanto in casa Mussolini i rampolli lo ascoltavano e suonavano). Di jazz mi sono trovato a scrivere seriamente dal 1958 a Il Giorno di Gaetano Baldacci (proprio da lui la spinta) e poi a Il Corriere d’informazione. Era una parte della mia professione di giornalista, adesso lo è al cento per cento, tra Musica Jazz e il supplemento culturale de Il Sole 24 ore.



JC: Credi ancora che la parola jazz oggi abbia un significato? E che rappresenta per te la storia del jazz?


GMM: Jazz vuol dire ancora jazz, per fortuna, anche se molto cambiato, come lo è il mondo intero, dal calcio alla pittura, dove è sparito il pennello in favore del computer. La storia serve proprio per tenere insieme esperienze diverse. Io cerco di seguirla e divulgarla da giornalista, da osservatore, rifiutando la definizione troppo pesante di “critico”, anche se di giudizi sul jazz, per la verità, negli anni ho dovuto darne tanti. Seguo tutti i musicisti e li amo tutti, Armstrong e Ellington in cima, Parker e Coltrane, Jelly Roll Morton e Bill Evans, Tatum e Monk, Fats Waller e Clifford Brown, naturalmente quelli d’oggi e quelli un po’ dimenticati, per esempio Chu Berry, Jimmy Lunceford. E mi impongo di seguire da vicino gli italiani.



JC: Sei tra i decani dei critici jazz italiani: ci racconti qualche aneddoto su jazzmen celebri?


GMM: Decani (io comunque non penso di esserlo in una classifica assoluta) non si diventa per merito ma lasciando passare il tempo. Ci pensa lui. Ho 75 anni e ne ho viste e sentite molte. Niente di clamoroso da raccontare: tanti concerti, più ancora dischi, e memorabili incontri, spesso con l’emozione di trovarmi a tu per tu con un mio idolo di quando ero ragazzo. La proverei ancora adesso se m’imbattessi, che so, in Sonny Rollins. Questo vuol dire che nel jazz ragazzi si rimane un po’ sempre.



JC: Come è cambiata la critica jazz in Italia da quando hai iniziato a oggi?


GMM: Cambiata molto. Il livello è cresciuto. E parecchio. L’appassionato obbligato a trasformarsi in divulgatore, come in genere eravamo noi, i cosiddetti “esperti”, quaranta o cinquant’anni fa, ha lasciato il posto a critici molto preparati, addirittura con qualche musicologo o aspirante tale nella schiera. Il progresso si vede bene in una rivista come Musica Jazz, nella quale io opero dagli anni Cinquanta dopo averne comperato – ricordo, nel settembre del 1945, all’edicola della Stazione Nord di Milano – il primissimo numero.



JC: Secondo te lo Stato o in genere le istituzioni in Italia cosa fanno per il jazz? Com’è la situazione in altri paesi?


GMM: Dall’alto piove poco o niente di vivificante sul terreno del nostro jazz, eppure i nostri musicisti e quei volonterosi che li sostengono riescono a farne, soprattutto ora, un campo fertile, rigogliosissimo. Purtroppo, per arrabbiarsi basterebbe prender nota di quanto avviene in paesi come Danimarca o Finlandia. E ancor più guardare a ciò che fanno in Francia per la loro Orchestre National de Jazz rispetto alla precarietà in cui deve vivere la nostra Italian Instabile Orchestra, che vale molto di più ed è apprezzatissima all’estero. Le amministrazioni locali pisane le hanno tolto i contributi per il suo annuale festival, ma i musicisti sono riusciti a farlo lo stesso.



JC: Sul jazz la nostra stampa è indietro o avanti rispetto ad altri Paesi?


GMM: Da noi i giornalisti bravi ci sono, e, come ho già detto, più preparati di un tempo. A mancare nei confronti del jazz sono semmai quelli che comandano nei quotidiani, avari di spazi (basterebbe poco), e in campo editoriale non parliamone neppure: in Germania o in Francia escono molti ma molti più libri rispetto a quanto si stampa da noi. Ma non generalizziamo: le belle sorprese ogni tanto ci sono. Il jazz ha sette vite, come i gatti.



JC: Cosa ti affascina maggiormente di altri personaggi che hanno scritto sul jazz? Quali sono per te i migliori e perchè?


GMM: Amo leggere chi sa documentarsi a fondo, come adesso questo James Gavin nella sua biografia di Chet Baker. E naturalmente chi in più sa esprimere giudizi intelligenti, come in passato quelli su cui mi sono formato: Charles Delaunay, Leonard Feather, il nostro Arrigo Polillo… Tra i viventi ho un debole per Whitney Balliett del “Newyorker” e stimo molto Ira Gitler e l’enciclopedico Scott Yurow. Devo dire che il mio primissimo punto di riferimento fu il vero protocritico di jazz, il francese Hugues Panassié, abbandonato senza rimorsi quando si mise a osteggiare furiosamente il bebop e ogni cosa che fosse “moderna”, addirittura Lester Young: diceva che aveva il suono di una tromba d’auto.



JC: Quali sono le maggiori affinità (e le maggiori divergenze) fra il jazz e le altre arti?


GMM: Il jazz rientra nei canoni della filosofia dell’arte, quindi i criteri per costruire una sua estetica dovrebbero essere gli stessi che in ogni disciplina tentano di spartire poesia e non poesia, di definire quello che una volta si sarebbe detto il “bello”. In realtà è un’arte nuova e soprattutto unica: la si improvvisa, non si può ripetere, la sua opera d’arte non è un quadro o un libro, e neppure la partitura (impossibile) o l’esecuzione (che vola via, nel vento), bensì il disco. Ognuno di noi, purché possieda dieci compact disc di quelli “giusti”, ha in casa una Cappella Sistina. Autentica. In quale altra arte può capitare?