Slideshow. Barbara Raimondi

Foto: dal profilo facebook di Barbara Raimondi










Slideshow. Barbara Raimondi.


Jazz Convention: Barbara, anzitutto, un disco su Ornette Coleman: perché un musicista così ostico e in apparenza non cantabile?


Barbara Raimondi: Credo ci siano, nella vita di ogni musicista, alcuni incontri che segnano un cambiamento forte e radicale, un imprinting che, in un certo momento della propria crescita artistica, stabilisce una direzione in qualche modo nuova: The shape of jazz to come per me ha rappresentato questo incontro. Un po’ più tardi ho cominciato ad approfondire la conoscenza della produzione musicale di Coleman e della sua complessa personalità; leggendo svariate sue interviste mi sono sempre più affezionata al suo universo artistico e, credo in linea con il suo modo di concepire la musica, ho realizzato che melodia e cantabilità sono concetti ritrovabili ovunque, perché parte del bagaglio comunicativo dell’ essere umano, anche se espresse in modi differenti. Per strano che possa sembrare, Coleman in diverse occasioni dichiara di ritenere le sue composizioni perfettamente in linea con la tradizione della grande canzone americana, filtrata però attraverso una lente personale ed espressiva che gli permette di “parlare la sua lingua”, per così dire. Lui non ha mai pensato di suonare in modo innovativo, e questo è incredibile e, in un certo senso, commovente, detto da uno dei più grandi innovatori del linguaggio jazz. Confrontando le sue parole con le dichiarazioni di alcuni musicisti contemporanei, auto-referenziali e celebrative di supposte vulcaniche creatività , trovo che faccia sorridere. Quindi potrei dire che sono stata conquistata dalla sincerità della sua musica e da un certo lato, mi si passi il vocabolo, leggermente naif della sua genialità.



JC: Mi racconti altro del tuo disco?


BR: Ho impiegato più di un anno a scrivere e decidere come articolare questo lavoro. Ho scelto di concentrarmi in particolare sul periodo all’Atlantic Records, etichetta per la quale in pochi anni realizzò una decina di dischi fantastici. Oltre a contenere brani più facilmente adattabili alla voce, penso (e pare lo pensi anche il Sig. Coleman…) che il quartetto di quei dischi sia stato una delle collaborazioni più magiche della storia del jazz, l’intesa con Don Cherry miracolosa e paragonabile soltanto ad alcuni altri rari casi – mi viene da pensare a Evans/LaFaro. Inoltre, parlando di bassisiti, Charlie Haden è stato probabilmente quello che più profondamente si è fuso con con l’idea colemaniana di improvvisazione, insieme al compianto Eddie Blackwell. Quindi il mio obiettivo è stato quello di trovare una “voce” che potesse in qualche modo ri-inventare le melodie così peculiari della sua musica, mettendo in risalto il profondo radicamento di Coleman nella tradizione jazz e be bop. Per questo ho scelto per la ritimica due musicisti eclettici ma con profonde radici jazzistiche nel loro linguaggio: Furio Di Castri, grande conoscitore del mondo free e Enzo Zirilli, musicista di grande sensibilità e soul mate di ogni mia avventura musicale . Mauro Negri, con cui non avevo mai lavorato prima, si è meravigliosamente integrato nel progetto e, paradossalmente, il suo essere fondamentalmente un non colemaniano ha aggiunto freschezza ed originalità a tutto il progetto.



JC: Facciamo ora un passo indietro: chi è Barbara Raimondi?


BR: Questa si, che è una domanda difficile… Mi piacerebbe saper dare un’idea chiara, una definizione appropriata di me come musicista, ma fatico a sintetizzare. Fondamentalmente sono un’autodidatta, e, come molti della mia razza, non è connaturato al mio temperamento incanalare in un’unica direzione i miei “sforzi” creativi. Ho registrato cinque dischi come solista, molto diversi fra loro in sonorità e genere; se dovessi cercare di spiegare cosa sto cercando, direi che cerco di essere sincera, nella mia musica. Non faccio mai niente di cui non sia convinta (talvolta anche erroneamente, convinta…) e, come un buon artigiano, cerco di mettere tutta la passione di cui sono capace in ogni singolo minuto di musica. Che io scriva canzoni – uno di questi 5 dischi, Troppo Rumore, è quasi interamente composto da brani miei – o che arrangi uno standard jazz, che scelga una canzone pop o un’improvvisazione estrema di matrice pseudoclassica, il mio scopo, perseguito con risultati che spero efficaci, è di esprimermi ogni volta in un modo che io non abbia già usato in precedenza. Ho avuto la fortuna, nella mia vita artistica, di essere attorniata da musicisti di grande valore, sia professionale che umano, e con alcuni di loro sento un legame, un’affinità mentale ed emotiva che mi permette di dare il meglio di me, poco o tanto che sia. Vedo la musica come una lingua, e mi pare che parlare da soli sia noioso e privo di scopo.



JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?


BR: Beh, la chitarra di mio padre, è il primo ricordo musicale della mia vita, mentre mi accompagna in Scende la pioggia di Gianni Morandi, modestamente all’epoca mio cavallo di battaglia. E la mia prima performance live a sette, forse otto anni; davanti ad un pubblico piuttosto numeroso per le circostanze, prima esperienza con un microfono. Cantai I giardini di Marzo contenta come un fringuello e può sembrare incredibile, ma già allora mi resi conto che quello era il posto dove mi sentivo più perfettamente a mio agio. Alla fine dell’esecuzione, però, non mi resi conto che anche ciò che dicevo, veniva amplificato, e dissi a mio padre, lì in piedi a lato: – Sono andata bene? – , tutti scoppiarono a ridere ed io mi sentii molto orgogliosa di aver fatto ridere così tante persone, anche se involontariamente. Sono nata e cresciuta in provincia e ho impiegato molti anni a realizzare che la musica sarebbe potuta diventare il mio mestiere; ho cominciato a studiarla seriamente molto tardi e, da allora, non ho più smesso. Ho scoperto quanto piacere possa dare approfondire le proprie conoscenze e credo che poter continuare a studiare tutta la vita sia una grande fortuna.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare una cantante?


BR: Come ho accennato, forse non è stata neppure una vera e propria decisione. Il canto fa parte di me come nient’altro, è il mio modo di stare nel mondo, quindi da sempre è parte integrante della mia vita. C’è una tale bellezza nella voce umana che, a volte, mi sembra che non ci sia bisogno di null’altro e la poesia si manifesta in tutta la sua grandezza, quando il suono è naturale e spontaneo. Penso a voci come quella di Stevie Wonder o Barbra Straisand e penso che niente potrebbe aggiungere bellezza al loro suono, nessun arrangiamento o accorgimento tecnico. Con le dovute proporzioni, la magia ed il piacere del canto credo siano ugualmente importanti anche per tutti noi e, in maniera istintiva e parzialmente inconscia, possono esprimere un’infinità di gradazioni emozionali. Forse è questo che mi ha fatto scegliere la voce come strumento: semplicemente mi piace cantare.



JC: E in particolare una cantante jazz?


BR: Al jazz sono arrivata piuttosto tardi, dapprima molto timidamente e con un certo timore reverenziale. Ho attraversato alcuni anni di studi di canto lirico senza mai realmente innamorarmi del tipo di approccio musicale, e, anche se nel repertorio antico e in quello contemporaneo ho trovato cose molto vicine alla mia sensibilità, ho percepito sempre un po’ frustrante la rigidezza delle regole estetiche del canto classico. Il jazz offre una varietà di colori utilizzabili molto più ampia di qualunque altro tipo di musica e questa possibilità di cambiamento mi è assolutamente congeniale. Anche la ricerca timbrica, nella musica jazz, è molto più personale e la storia dei grandi interpreti è piena di voci tutt’altro che perfettamente eufoniche; quindi, anche se ritengo che il jazz sia un linguaggio musicale con regole precise, che vanno apprese e in qualche modo interiorizzate, la condizione di compositore estemporaneo, caratteristica del musicista jazz, è sicuramente quella che mi diverte di più.



JC: Ma cos’è per te il jazz?


BR: Come dicevo, la bellezza del jazz, per me, risiede nella complessità e varietà di sfumature del suo linguaggio, e, come tutti i linguaggi in uso, nella sua costante evoluzione. Resto tuttavia convinta che la sua grammatica e sintassi, per restare in metafora, vadano apprese come per qualunque altra lingua, e, in questo senso, trovo inconcepibile che le giovani generazioni talvolta liquidino le radici della musica jazz come superate. Sarebbe come rifiutare di imparare le coniugazioni dei verbi. Al tempo stesso permettere che il linguaggio si sporchi fa parte del gioco e credo che la musica creativa sia perfettamente in grado di digerire corpuscoli estranei, rendendoli parte del tessuto musicale. Non possiamo sapere in che direzione si svilupperà il flusso creativo del jazz e impedirne l’evoluzione è tanto stupido quanto impossibile. Mi sembrerebbe più coerente re-inventare la tradizione, portando il dna del jazz a mescolarsi con nuovi geni per produrre nuove mutazioni. D’altronde, nelle creature viventi il “sangue misto” spesso dà vita a creature di rara bellezza.



JC: Tra i brani che hai cantato, nella tua carriera, ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?


BR: Difficile scegliere. In generale mi conquistano i brani in cui la costruzione testo/musica sembra compenetrarsi in maniera perfetta, rendendo la forma canzone un piccolo ma intenso capolavoro. Pescando un po’ nel mio passato, potrei citare un brano di Gaber/Luporini che ho anche registrato, L’illogica allegria, un piccolo gioiello nel descrivere un momento di magia inaspettata, come talvolta capita di vivere. La geniale combinazione di ironia e bellezza che i fratelli Gershwin sapevano creare. E Luiza di Tom Jobim. Forse però, parlando di affezionarsi ad una canzone, dovrei mettere in prima posizione un brano scritto da un grande pianista, Luigi Bonafede, su cui ho provato a scrivere un testo in italiano, sfidando la proverbiale difficoltà d’inserimento della nostra lingua in ambito jazzistico. Il brano s’intitola Filastrocca e mi sembra, forse con poca modestia, di essere riuscita a dare un sapore personale a questa splendida melodia in Ÿ. C’è un pezzettino della mia vita, in quella canzone; l’ho registrata e, successivamente, mi sono divertita a montarla su un collage di vecchi video della mia infanzia, pubblicandola in rete. Un’operazione di amore nostalgico.



JC: E tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?


BR: Carmen Mc Rae sings Monk, il già citato The shape of jazz to come, It could happen to you di Chet Baker, di cui non mi stufo mai, e For the Roses, Joni Mitchell. E Only the Lonely, di Frank Sinatra, per sentirmi triste.



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?


BR: In ambito musicale direi alcuni dei musicisti che ho conosciuto: Nat Adderly, che conobbi anni fa durante un workshop. Enrico Pieranunzi, di cui mi piace considerarmi un po’ amica e, recentemente, Sheila Jordan, che avevo già incontrato grazie a Gianni Cazzola e che ho avuto modo di conoscere un po’ meglio l’anno scorso a Trento. Sheila è una donna di un’umanità toccante e, nonostante l’età, tremendamente innamorata della vita e della musica. Direi che corrisponde esattamente a come vorrei invecchiare io… Per il resto, sono un’appassionata di letteratura e considero la scrittura come la più eccelsa delle arti, forse ancor più della musica. Mi sarebbe impossibile elencare anche solo alcuni dei miei ispiratori, ma, in qualche caso, sviluppo una forma di tossicodipendenza che mi costringe a rileggere ciclicamente alcune delle loro opere. Dedico molto tempo alla lettura, in effetti più che all’ascolto di musica, o, perlomeno, lo faccio con disinteressato amore e piacere incondizionato. Talvolta, il mestiere di musicista ti obbliga a punti di vista più strettamente professionali e meno di “goduria pura”, e questo ne guasta un po’ la gioia. E citerei, per restare sul confine, per così dire, Giorgio Gaber, il cui lavoro ho seguito proprio dall’inizio, poco più che bambina, grazie ai miei genitori. Un uomo serio.



JC: E i vocalist (non solo jazz) che ti hanno maggiormente influenzato?


BR: Indubbiamente Joni Mitchell, una grandissima artista, con una visione di sé molto precisa e definita. Amo molto le persone che sono capaci di scegliere la propria direzione senza farsi condizionare da ciò che ci si aspetta da loro e per me anche questa è misura della statura di un artista. Personaggi come Kathy Barberian, che cantava tutto ciò che aveva voglia di cantare, in un ambito come quello della lirica, governato da regole talvolta soffocanti. Stilisticamente amo molto la cifra espressiva di Carmen Mc Rae, così asciutta e con un’attenzione al portamento ritmico oggi molto raro. Non ho molta predisposizione per la vocalità afro americana soul, tanto di moda, con molti abbellimenti e quel fraseggio che io trovo un tantino ridondante, e, molto in generale, preferisco una vocalità un po’ più semplice e diretta; io la definisco “umana”, cioè più naturale e scevra da effettistica circense.



JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?


BR: Quando sono sul palco con musicisti che amo.



JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?


BR: Sono una pianta che ha bisogno delle giuste condizioni climatiche, per poter fiorire:.quindi cerco sempre di collaborare con musicisti con cui ci sia affinità anche personale ed umana. Ho bisogno dello scambio, di conversazioni, non monologhi, e quindi mi è successo che con alcuni musicisti, peraltro bravissimi, faticassi a relazionarmi; ovvio che l’esperienza permetta di fornire comunque una performance di livello professionale, ma non mi diverto e la collaborazione, sia essa una performance dal vivo o una registrazione, mi lascia con una sensazione di insoddisfazione e, fondamentalmente, di noia. Talvolta, quando vedo queste dinamiche di autoreferenzialità delle esibizioni, mi stupisco che il pubblico non si alzi e se ne vada….Lavoro da anni con Enzo Zirilli, con cui ho uno speciale rapporto musicale ed umano. La sua generosità e il suo strabordante amore per la musica sono una gioia per l’anima. Con Roberto Taufic, straordinario poeta/musicista, che mi ha insegnato com’è una vera comunione musicale. Recentemente ho collaborato con un giovane suonatore di hammond, Alberto Gurrisi, un grande e focoso talento del sud, musicista sensibile e al tempo stesso di grande personalità. Ho avuto l’onore di lavorare con il già citato Enrico Pieranunzi, un universo musicale così profondo e vasto che ci vorrebbe un’intera vita a disposizione da dedicare a collaborare con lui. E poi svariati artisti stranieri, come l’altista Tony Kofi con cui abbiamo presentato i live di questo progetto su Coleman. Tony ha registrato un disco con Mr. Coleman in person, nel 2003, e la sua voce di sassofono incarna, a mio parere, l’idea colemaniana di suono armolodico, definizione da lui coniata per definire il suo approccio. Quando l’ho detto a Tony, lui mi ha risposto: – It’s all about the human voice, dear, that’s what Ornette told me..it’s all about the human voice….- E poi Luigi Bonafede, Claudio Chiara, che ha il suono di alto sax più bello del mondo, e Ross Stanley, londinese suonatore di hammond, ospite per un brano su Singin’ Ornette.



JC: Come vedi la situazione della musica in Italia?


BR: Direi che non c’è una situazione della musica, in Italia. Ci sono invece moltissimi ottimi musicisti e non mi stupisce che molti di loro si spostino sempre di più a lavorare all’estero, come ha fatto Enzo Zirilli che da anni vive a Londra. Insegno in Conservatorio da qualche anno e, a quei giovani allievi che realmente vogliono fare della musica un mestiere, consiglio di andare via; c’è un messaggio fondamentalmente sbagliato che arriva alle nuove generazioni, un misto di eccesso di auto promozione e ignoranza che solo la realtà di un più ampio universo musicale può sfatare. Bisogna uscire dalla piccola “pozza” in cui si dibatte la musica italiana per rendersi conto che il mondo è pieno di giovani talentuosi e preparati, e che fare il musicista è, prima di tutto, un mestiere. E, come tale, va imparato.



JC: E più in generale della cultura in Italia?


BR: Non credo di dire niente di originale, affermando che negli ultimi vent’anni ci sia stato un impoverimento spaventoso del livello culturale. Lo stato in cui versano Università e Conservatori è quello di un paese arretrato e la salvezza di queste istituzioni è affidata alla buona volontà di quegli insegnanti che, nonostante tutto, prendono seriamente il proprio lavoro. Alla pochezza culturale si accompagna, come naturalmente di norma succede, la barbarie sociale ed il mito dell’italica creatività, usato per giustificare le nostre mancanze, non è più sufficiente a salvare la nostra società. Non sono molto fiduciosa e fatico a credere che, in un prossimo futuro, possano nascere ancora personalità come Primo e Levi o Italo Calvino.



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


BR: Registreremo in agosto, a Londra, un nuovo lavoro con Contigo en la Distancia, formazione stabile da ormai una decina di anni con Roberto Taufic ed Enzo Zirilli, un trio che lavora sul repertorio d’autore dell’America del sud, recuperando brani tradizionali prevalentemente di lingua spagnola. E’ un repertorio che amo tantissimo, rielaborato insieme a due musicisti che amo altrettanto. Cosa posso volere di più? Parallelamente, sto cominciando la gestazione di una lavoro complesso, che richiederà un tempo piuttosto lungo e che, per ora, non è molto di più di un’idea: vorrei lavorare in maniera non convenzionale sulla letteratura liederistica , utilizzando le meravigliose melodie della canzone classica per re-inventarle e riproporne la carica comunicativa. La forma canzone, come dicevo, mi sembra profondamente radicata nel vocabolario espressivo degli esseri umani, da sempre, e mi piacerebbe poter utilizzare una delle interpretazioni più elevate del racconto in forma musicale. Vedremo, penso che per ogni progetto musicale sia necessario che nasca un amore, un’alchimia che si crei abbastanza spontaneamente da legare insieme la musica e le diverse personalità dei musicisti che la interpretano. Credo che difficilmente si possa produrre qualcosa d’intenso senza questa combinazione chimica o, quantomeno, così è costruito il mio mondo musicale.