Valli, Liberace, Rodriguez tra cinema, jazz e altro

Foto: il poster del film Jersey Boys









Valli, Liberace, Rodriguez tra cinema, jazz e altro

Riflessioni sui film musicali Jersey Boys, Dietro i candelabri, Sugar Man

Premessa



Tre film usciti a pochi mesi uno dall’altro intendono riproporre, attraverso una fiction abilmente romanzata (che pur si basa su episodi concreti di storia e di cronaca), la vita e di conseguenza l’opera di tre figure della pop music americana, ma in rapporti più o meno diretti con il vero jazz: si tratta di Frankie Valli, Liberace, Sixto Rodriguez oggi rimossi o ignorati dal gusto corrente che sul piano strettamente musicale sta andando da tempo in ben altre direzioni. Tuttavia Valli, Liberace, Rodriguez sono personaggi indubbiamente affascinanti, complessi, stratificati e per molti versi ancora attuali e rivalutabili anche alla luce di quanto visto nei tre lungometraggi Jersey Boys, Dietro i candelabri e Sugar Man. Vien subito da chiedersi, persino in una rivista come Jazz Convention, cosa abbiano da spartite con il mondo del jazz stesso, il primo, il secondo e il terzo. I motivi di interesse, connessione, apparentamento sono tanti, soprattutto per via della perenne inclusione che il linguaggio jazzistico da sempre opera nei confronti delle altre musiche, verso le quali – dalla classica al folk – ha comunque i propri debiti di riconoscenza.



Frankie Valli in Jersey Boys

Partendo da Frankie Valli, a occuparsi di lui è un grande attore/regista finalmente nobilitato da pubblico e critica alla stregua dei sommi cineasti del passato e del presente: Clint Eastwood. Quando il film esce in Italia nel giugno 2014, la critica più superficiale parla di lui come prima volta a dirigere un musical. In realtà Jersey Boys è piuttosto una biopic (o biografia musicale) che Eastwood trae in effetti da un vero musical teatrale, ma che sa trasformare da par suo in autentico dramma di una pop star, mantenendo le diverse parti cantante (e un solo balletto finale sui titoli di coda), ma accentuando la vicenda in chiave psicologica, senza rinunciare al pathos da tragedia che del resto caratterizza la sua sterminata filmografia, in cui trovano posto già altre due biopic, Honktonk Man (1982), su un immaginario cantautore di stile country’n’western, che prelude al capolavoro Bird (1988) dedicato alla figura dell’immaginifico bopper Charlie Parker. Il jazz del resto è al centro degli interessi di Clint, dentro e fuori dal cinema: è un discreto pianista swing, un valido organizzatore di concerti e festival in tema e soprattutto un ottimo documentarista in grado di inserirsi benissimo nel progetto di Martin Scorsese sulla storia del blues con ben otto film affidati ad altrettanti registi (e per Eastwood c’è Piano Blues).


Questa premessa risulta importante perché senza il jazz forse non esiterebbe Frankie Valli quale artista. Il ragazzino – nato come Francesco Stephen Castelluccio a Newark ottant’anni fa esatti – di umili origini italoamericane cresce a Belleville (sempre New Jersey), a poche miglia di distanza da Hoboken, dove prende le mosse Frankie Sinatra che è per lui l’idolo da imitare. Le velleità artistico-musicale del Valli adolescente si scontrano però con l’ambiente locale dove teppismo, malavita, delinquenza giovanile imperversano, sotto gli occhi “vigili” di un vecchio boss. A tirarlo fuori dalla strada e a convincerlo a proseguire nella musica, sino a inventarsi assieme una propria band, è l’amico del cuore Tommy DeVito (chitarra e controcanto), il più teppista della zona, il quale purtroppo influenzerà anche negativamente la carriera di entrambi e del quartetto che, assumerà il definitivo nome di Four Seasons. Dopo la solita gavetta, il salto di qualità viene compiuto grazie all’ingresso nella band di Bob Gaudio, tastierista e valente compositore, il quale, scrivendo all’istante Cherry, proietta il quartetto, con Nick Massi al basso e ai cori, nell’olimpo della pop music: New York, i dischi, la radio, la televisione, insomma il successo.


Alle “quattro stagioni” la ruota della fortuna gira per alcuni anni fra tournée e bella vita, dalla quale Frankie prende subito le distanze essendo sposato e padre di una deliziosa bambina: una bella famiglia, insomma, alla quale non può dedicare le quotidiane attenzioni per il tipo di lavoro che lo porta a girare l’America e a fermarsi pochissimo a casa propria. La situazione familiare s’aggraverà negli anni: Frankie divorzia per mettersi con una ben più comprensiva giovane musicologa, mentre la figlia adolescente scappa a New York e benché aiutata dal padre a intraprendere l’attività musicale per via delle indubbie qualità vocali, si trascina in un’esistenza border line fino a morire per overdose a soli 19 anni. Ma i guai per Valli non finiscono qui: i rapporti tra lui e DeVito si fanno sempre più tesi a causa dell’atteggiamento supponente, ai limiti dell’arroganza, di quest’ultimo, che pare sempre meno coinvolto nella musica e solo interessato alle donnacce, al denaro facile e ai loschi affari. Si scoprono gli altarini: Tommy evade le tasse che il gruppo deve pagare allo Stato, trucca i bilanci con il commercialista dei Four Seasons e soprattutto s’indebita per circa un milione di dollari con un potente gangster, che minaccia i quattro di morte se non pagano subito il debito. Dopo una burroscosa riunione davanti ai due mafiosi (l’amico e il nemico), il colpo di scena: Frankie si accolla l’intero debito, pur di non aver più niente a che fare con DeVito, essendogli riconoscente per l’aiuto morale durante l’adolescenza.


Massi lascia il gruppo e anche Tommy sparisce: finirà per fare l’assistente a Joe Pesci, diventato da semplice barbiere ad attore feticcio per Martin Scorsese. Valli – che assieme a Gaudio già possiede una propria società di edizioni – prosegue a fatica in un percorso musicale ormai completamente mutato e per saldare il debito soffre umiliandosi a esibirsi in locali di infimo ordine. Tuttavia, sempre grazie alla penna di Bob, la fortuna gli arriderà ancora una volta con i brani Can’t take my eyes off you e Grease che lo proiettano rispettivamente in dimensioni pop-soul e disco-music. Poi dopo un quarto di secolo, per l’ingresso nella preziosa Hall of Fame del rock i Four Seasons si riunirscono per l’ultima volta, ritrovando il feeling originario in celebrati successi divenuti evergreen a tutti gli effetti, con uno stile davvero unico e originale, sebbene compromesso con i gusti della musica leggera. Non c’entra più Sinatra se non come simbolo o modello, perché fin dall’inizio la peculiarità vocale di Frankie resta il falsetto, che mescolato nei coretti alle tonalità basse di Massi e medie di DeVito lo avvicina al suono dei gruppi neri doo-wap, che a loro volta, stilisticamente, si pongo quale crocevia tra pop, gospel, blues, jazz, Coasters, Drifters, Platters.



Liberace in Dietro i candelabri

Per circa quattro decenni Wladziu Valentino Liberaci, pianista americano di origini italo-polacche, nato nel 1919 a Mikwakee, resta con il nickname Liberace (da lui inventato, ma gli intimi lo chiamano Lee) tra gli entertainer più famosi e strapagati negli Stati Uniti, senza mai ottenere il benché minimo riconoscimento in Europa e nel resto del mondo. Il motivo risulta sin troppo evidente: Liberace rappresenta la tipica americanata che il pubblico del Vecchio Continente respinge in toto, perché ritiene via via pacchiano, triviale, kitsch, l’ostentato spettacolarismo di un personaggio senza dubbio border line nell’esibirsi, soprattutto per le platee di Las Vegas (essa stessa città del cattivo gusto), tra lustrini e paillettes, come nel peggior avanspettacolo, a ostentare lusso e ricchezza (come nella vita privata a cominciare dall’arredamento della sontuosa villa) in abiti barocchi, scenografie da musical, pianoforti con brillanti, repertori ammiccanti per un’audience boccalona nell’accettare versioni edulcorate e banalizzanti di tanta buona musica classica, pop e jazz.


Il talento in Liberace – e in ciò anticipa tanti divi pop degli ultimi anni da Elton John a Freddy Mercury, Madonna a Lady Gaga – consiste soprattutto nel diventare – e restare sino alla fine – un principesco miliardario puntando esclusivamente su quanto sopra elencato, sotto l’abile regia di un manipolo di fedelissimi tra impresari, promoter, avvocati. La carriera dl pianista scivola via regolarmente anche grazie a una vita integerrima sotto il profilo degli eccessi: a differenza dei jazzisti o delle rock star, niente droghe, pesanti o leggere, solo qualche sigaretta e un po’ d’alcool (semmai tanto champagne), ma un solo unico “stravizio”: un’intensa attività sessuale, che viene tenuta nascosta dalla curiosità mediatica per il fatto di essere gay in un periodo in cui l’omosessualità resta ancora un tabù, una perversione o una malattia. Liberace riesce a far credere di essere single in quanto ancora alla ricerca di una moglie ideale e addirittura a vincere una causa in Inghilterra per diffamazione contro un giornalista che lo taccia di pederastia. Tutto resta sotto silenzio fino a quando uno degli amanti nascosti, Scott Thorson decide nel 1998 di pubblicare Behind The Candelabra: My Life With Liberace, un libro per raccontare i quattro anni di intenso amore e strettissima convivenza tra lui e l’artista dal 1977 al 1981.


Ed è da questo testo che Steven Soderbergh – che dall’esordio Yes: 90125Live (1985) documentario sulla prog band Yes non si dedica più al genere musicale – decide di ricavarne un film andando anche oltre, fino alle ultime ore prima della scomparsa dello showman avvenuto nel 1987 in una clinica di Palm Springs per AIDS. Dunque il lungometraggio, Dietro i candelabri (il titolo allude all’idea di Liberace di tenere sempre due candelabri di accesi sul pianoforte mentre suona dal vivo) s’incentra sul rapporto prima tenero e poi burrascoso tra i due, con qualche flashback sul passato dell’artista, dando per scontato quanto il pubblico americano (assai meglio di ogni altro) conoscono molto bene; dunque non si parla di musica, ma solo dell’artista o meglio di una dorata solitudine riempita da fugaci repentine passioni per giovani uomini (o persino da squallidi club privé a cercare sensazioni forti) conosciuti soprattutto nei dopo concerto. Ed è quindi colpo di fulmine tra Liberace e Scott studente di veterinaria che lavora in un canile; la love story pare vera, costruttiva, duratura al punto da costringere il giovane a una plastica facciale che lo faccia somigliare a Liberace, il quale lo assume come segretario e tuttofare, promettendogli di adottarlo come figlio per lasciargli un’immensa eredità.


Ma la gelosia del padrone di casa che rifiuta qualsiasi svago pubblico, salvo poi infatuarsi di un altro “giovanotto” rendono i rapporti tra Liberace e Scott sempre più tesi, aggravati dal problema che quest’ultimo, da una dieta di pillole (probabili anfetamine) nella fase post-operatoria, arriva presto all’uso (e abuso) di cocaina con gravi effetti psichici. Il caso si risolve con una separazione parzialmente consensuale, giacché finisce inumani ai legali che per Thorson riescono a “estorcere” solo duecentomila dollari e una cura ospedale disintossicante. Il ragazzo ormai pulito lavora in un ufficio postale, quando riceve una telefonata straziante: è Lee ormai malato terminale che chiede di vederlo per un’ultima volta, confessandogli, tra pianti e lacrime, di restare l’unico amore della sua vita. Anche post mortem Liberace fa discutere: il mondo non crede al reperto del medico di famiglia che parla di infarto e l’opinione pubblica vale un’autopsia che rivelerà la causa del decennio, in un destino comune a tanti artisti (Rock Hudson, Keith Haring, Freddy Mercury, Rudolf Nureyev, Bruce Chatwin, ecc.) in quello scorcio maledetto di anni Ottanta.



Sixto Rodriguez in Sugar Man

Un bellissimo pluripremiato documentario illumina un aspetto inquietante dello show business: Sugar Man, dal titolo della miglior canzone del folk singer di Detroit, racconta la storia di Sixto Rodriguez (ma si firma con il solo cognome), oggi settantunenne, che nei primi anni Settanta incide due album Cold Fact (1970) e Coming From Reality (1971) che suscitano entusiasmo e stupore nei discografici e nei produttori che riscontrano nell’atto compositivo di ogni canzone (dagli stilemi via via folk, blues, pop, rock) una perfezione ineguagliata fin dagli ormai lontani esordi del primo Bob Dylan (dal quale indubbiamente riprende forme e contenuti, ma con una fresca vitalità impregnata altresì di sonorità afroamericane). I due ellepì non hanno il successo auspicato e Rodriguez cade nell’oblio in America, ma non nel Sud Africa, dove invece i 33 giri arrivano a superare il mezzo milione di copie vendute (cifra ragguardevolissima per il mercato locale): le canzoni di Sixto diventano altresì un simbolo da parte dell’intellighenzia bianca democratica della lotta contro l’apartheid, mentre attorno allo stesso cantautore cresce un’antica mitologia dovuta al fatto che a Capetown e dintorni viene presa per buona una leggenda metropolitana (o, come si vedrà una solenne bufala), quando si sparge la voce che il cantautore muore suicida dandosi fuoco nel bel mezzo di un concerto per protestare contro la sfortuna in patria.


Ma un paio di dj e critici sudafricani non si danno per vinti e scoprono che Rodriguez esiste ancora e fa l’operaio come prima di incidere i due capolavori; gli organizzano una breve tournée a Capetown e il 6 marzo 1998 un palasport stracolmo di trentenni commossi, increduli, festanti lo accoglie come un Elvis Presley redivivo; e lui quasi non si scompone, come non si scompone durante un’esistenza travagliata, povera ma felice o forse felice perché povera; infatti, diventato famoso, grazie al Sud Africa, non vuole arricchirsi e destina i compensi e i ricavi di questa sua seconda vita agli amici indigenti e alle associazioni sindacali con le quali è da sempre in prima fila, anche in tempi non sospetti. Sul perché Sixto resti all’oscuro della notorietà sudafricana il film in parte sorvola, ma viene chiarito dalla cronaca e dalla storia che ad approfittarne risulta un suo vecchio collaboratore, il quale falsifica i documenti sui diritti d’autore, accreditandoli a un fantomatico Jesus Rodriguez. Il vero Rodriguez oggi continua a vivere nel modestissimo appartamento di una Detroit irriconoscibile: quando esordisce è ancora la Motor Town capitale del soul e del r’n’b, ora sembra una metropoli fantasma da fantascienza apocalittica. Sixto torna a Cape Town altre quattro volte per un totale di trenta concerti, devolvendo, o come sempre, il cachet in beneficenza. A chi gli chiede come mai non scriva più canzoni e lasci a metà un album dal lontano 1973, rispondendo con sincera innocenza di esaurire la vena ispirativa, grazie al raggiungimento di quella perfezione di cui sopra. Il documentario tenta di essere il più esauriente possibile alternando numerose interviste (a familiari, gente comune, addetti ai lavori), rare foto d’epoca, preziosi filmati amatoriali sudafricani (concerti, viaggi, backstage) e soprattutto una macchina da presa che segue il protagonista dentro e fuori l’umile casa nell’impoverita downtown. E dal modestissimo alloggio Sixto ancora una volta non si scompone, elargendo perle di saggezza anche soltanto rispondendo a monosillabi alla morbosa curiosità registica.