Foto: da internet
Giorgio Gaslini. Un ricordo di Guido Michelone
Apprendo ora della scomparsa di Giorgio Gaslini, in primis un amico, ragion per cui faccio fatica a parlare dell’artista, anche se è proprio la sua grandezza musicale a spingermi a conoscerlo tanti anni fa, sino ad attivare una frequentazione telefonica (e di corrispondenza cartacea) dove gli attestati di stima reciproca mi sembrano oggi quasi infiniti nello loro costanza, ma sempre dettati, per entrambi, da sincerità autentica, senza fini reconditi, come talvolta accade per certi jazzisti nel rapporto allievo/maestro.
Voglio ricordare Giorgio Gaslini nelle situazioni a me più care e familiari, a cominciare dalla sua immagine per la prima volta ammirata sul piccolo schermo, di pomeriggio, per la tivù dei ragazzi: è il 1968, data fatidica, la trasmissione è “Chissà chi lo sa” condotta da Febo Conti e il jazzman, allora barbuto, interpreta al pianoforte Thelonius Monk, quasi a ricordare gli stretti legami con la radice e la storia jazzistiche in piena contestazione studentesca, quando anch’egli, all’epoca quarantenne, si pone dalla parte degli studenti: non a caso nel 1972, quando comincio a interessarmi seriamente di jazz, acquisto quasi per caso (sono lì per un libro) un suo album, Il fiume furore, alla libreria Feltrinelli di Milano in via Manzoni, allora l’unica Feltrinelli al mondo, quasi un covo di rivoluzionari. Da quel disco condiviso con diversi artisti militanti, parte la spasmodica ricerca di Nuovi sentimenti, il 33 giri che da quanto leggo risulta il capolavoro del free europeo; lo rintraccio a Torino, qualche tempo dopo, opportunamente ristampato, quando ho già in mio possesso Message e Fabbrica occupata.
Ritrovo poi Giorgio Gaslini, finalmente in carne e ossa, per la prima volta, dal vivo, nel 1976, a Trino Vercellese per un concerto organizzato da giovani di sinistra: riesco persino a intervistarlo dopo il concerto; lui è disponibilissimo e parliamo di tutto: politica, società, cultura e ovviamente e soprattutto musica, anche se la situazione ha un risvolto buffo. Si tratta quasi di un aneddoto comico, che voglio rivelare: mentre si sta conversando, irrompe alla chetichella il solito giovane musicista in erba che vuole mettersi in mostra. All’epoca accade persino che questa tipologia di giovane fricchettone salga sul palco, affiancandosi ai concertisti, come posso constatare un anno prima a Novara con l’Idea Trio di Gaetano Liguori per la tournée “Cile Rosso Cile Libero”: durante il lungo bis il giovane si avvicina a loro, si siede a terra e si mette a suonare i bonghetti; i tre restano imperturbabili, non se lo filano proprio, benché tenti di andare al ritmo del complicato post-free. Tornando a Trino, durante l’intervista, che si tiene sulle poltrone della platea (oltre me ci sono ad ascoltare e far domande Giorgio Simonelli e Roberto Portinaro, rispettivamente futuri mediologo e sindacalista) l’ennesimo freak si siede al pianoforte e si mette a strimpellare dei blues ininterrottamente: dopo qualche minuto, Giorgio Gaslini, un po’ seccato dice a noi: «Fatelo tacere!», con quel velo di ironia, che lo contraddistingue in mezzo a troppi jazzmen boriosi.
Lo rivedo, poi, nei primi anni Ottanta ad Albenga (dove sono in vacanza) in agosto in un posto tristissimo, un parcheggio, che ora non esiste più (vi costruiscono palazzine) destinato per l’occasione a ritrovo musicale: circondato, alla fine, da molti curiosi, non trovo spazio (e tempo) per una mia seconda intervista. E, più o meno nello stesso periodo, per me inizia la collaborazione con Musica Jazz, partecipando di conseguenza al referendum che il mensile indice ogni anno: amo la musica di Giorgio Gaslini e trovo che il suo resti quanto di più intrinsecamente originale esprima il jazz italiano, affiancato solo da pochissimi altri innovatori (molti dei quali partiti sotto l’ala protettiva di un Maestro in primis didatta, leader, intellettuale e talent scout). I miei voti a Giorgio Gaslini come musicista dell’anno o per i nuovi dischi o ancora quale miglior formazione non si contano, di fronte a colleghi spesso troppo restii a parlarne bene o a rilevarne l’importanza. Ho un po’ la sensazione che Giorgio Gaslini venga messo talvolta in disparte dalla critica, la quale a sua volta magari non tollera, benché giustificati, atteggiamenti di presunzione o superiorità, ma che in lui sono bonariamente perdonabili, non solo perché genuini, ma anche in quanto facenti parte dell’indole del personaggio. I jazzologi italiani non apprezzano nemmeno le troppe uscite dell’artista verso altre direzioni espressive (sperimentazione colta in primis, che fra l’altro viene sempre più da lui frequentata negli ultimi anni), senza capire che l’approccio è davvero a una ?musica totale’, come egli stesso prefigura in un saggio celebre a metà Seventies. A parte un paio di tavole rotonde e qualche altro concerto soprattutto a Milano e in Lombardia, incontro, fra calma e tranquillità, Giorgio Gaslini per un evento particolare: lo invito – siamo nel 2007 – a tenere una lectio magistralis al mio corso di storia della musica afroamericana presso il Master in Comunicazione Musicale dell’Università Cattolica di Milano; lo trovo in anticipo sull’orario convenuto nell’atrio di via Sant’Agnese 2: ed è vestito con una giacchetta attillata di lamé grigio, che riconosco come quella usata per la copertina di un disco e per foto promozionali; la lezione incanta i miei studenti che si fermano oltre il dovuto per subissarlo di domande tra le più eterogenee, sempre però nel rispetto di una musica che molti di loro iniziano a conoscere per la prima volta. L’ultimo mio rendez-vous con Giorgio Gaslini risale al 2010 ed è per il mio volumetto “Sincopato tricolore” (per Effequ) dedicato al jazz italiano tra il 1900 e il 1960. L’editore Fernando Quatraro vuole che inserisca anche tre interviste finali ad altrettanti protagonisti di quelle epoche: in merito ai primi fermenti avanguardisti, la scelta naturale non può che concernere lui, Giorgio Gaslini, che, entusiasta, si lancia in un lungo racconto narrando di tutto e di più (faticherò, poi, in fase di editing, a selezionare l’indispensabile di una memoria storica prodigiosa).
Tra i numerosi aneddoti, uno merita un accenno: mi racconta che a fine anni Settanta viene invitato – primo e unico italiano – a suonare a New Orleans durante il celebre festival locale; durante una pausa, in un palco secondario, dedicato agli esordienti, nota ragazzino del posto che suona benissimo la tromba: lo trova eccezionale e vede per lui un radioso futuro; anni dopo verrà sapere che quel trombettista altri non è che il giovane Wynton Marsalis. Alla fine, ho un duplice rammarico nei confronti di Giorgio Gaslini: non poterlo sentire in concerto a Vercelli (mia città natale) dove riesco a farlo suonare per l’indifferenza o l’ostilità di certi assessori; e non fare in tempo a dedicargli il premio alla carriera che l’associazione Amici del Jazz di Valenza Po istituisce due anni fa e per il quale io fin da subito propongo chi, nel mio animo, rimane il più originale jazzman italiano. Di mio su di lui esistono solo alcune recensioni discografiche, ma sono fiero che nel 2004 trascrivo e pubblico in una mia dispensa universitaria, “Dal jazz al pop”, la lezione-concerto racchiusa in due vinili, che tiene nel 1972, un’opera singolarissima (e forse unica nel suo genere): un lavoro che i discografici non vogliono inserire nell’integrale in doppi cd con estremo rammarico da parte dell’autore, un’autore – e lo ribadisco con orgoglio – amico, immenso, sincero, genialissimo.