Jarrett, Bollani e Shorter e luglio suona bene

Foto: Luca Labrini










Jarrett, Bollani e Shorter e luglio suona bene

Roma, Auditorium Parco della Musica – 8-11-16-26.7.2014


«Si prega il pubblico in sala di spegnere i telefoni cellulari, e si ricorda che è proibito scattare foto, effettuare registrazioni e colpi di tosse.» Questo l’annuncio che precede l’entrata in scena di Keith Jarrett per l’evento musicale più atteso, al pari del concerto dei Rolling Stones al Circo Massimo, di quel che rimane dell’Estate Romana. Di primo acchito c’è chi rimane basito, chi commenta con ironia e chi accetta di buon grado ormai abituato alle intolleranze del personaggio. A quanto pare per assistere ad un suo concerto bisogna godere di ottima salute e, in effetti, giusto qualche giorno prima a Parigi, il pianista americano aveva interrotto il suo concerto proprio per i ripetuti colpi di tosse di uno spettatore. Ma Jarrett è anche questo, prendere o lasciare, ed ogni suo concerto, soprattutto in solo, è quanto mai un terno al lotto dettato dall’umore del grande pianista. L’apertura romana in realtà non lascia presagire nulla di buono, con il pianista che appena entrato battibecca con una spettatrice delle prime file, rea di avere in mano una macchina fotografica tanto odiata, facendo subito rientro nei camerini.


Richiamato a gran voce, è lo stesso Jarrett a prendere il microfono e a chiedere la comprensione e l’aiuto del pubblico spiegando che si tratta di un concerto completamente improvvisato che richiede un grande sforzo e la concentrazione di tutti per la buona riuscita dello stesso. Fatte le dovute premesse, una volta sedutosi al pianoforte il Jarrett teso e paranoico lascia finalmente spazio all’artista, ed inizia tutta un’altra storia. L’inizio cervellotico sembra quasi un avvertimento, con un primo algido e nevrotico brano che lascia spiazzati. Presa confidenza con lo strumento, con una Sala Santa Cecilia come sempre al completo e con un suono che va migliorando, Jarrett però cambia rotta e, già dai momenti successivi, inizia a sviluppare le sue idee dettate dall’estemporaneità, fatte spesso di dolci melodie intervallate da attimi più tesi e dissonanze spigolose. Il pianista riesce a calare magicamente lo spettatore dentro le sue improvvisazioni grazie ad un tocco ed una sensibilità da brividi, in una musica morbida ma estremamente complessa. Nel suo pianismo: c’è tutta l’arte più alta dei più grandi interpreti, da Ravel a Debussy fino ad Art Tatum, dove le variazioni melodiche danno l’impressione di suonare free, mentre sono perfettamente immerse nel ritmo e nell’armonia delle composizioni. I brani non sono più quelle lunghe e torrenziali improvvisazioni che hanno reso celebre l’artista negli anni ’70, ma appaiono adesso dei momenti più brevi e riflessivi che non perdono comunque in termini di pathos. Jarrett appare davvero ispirato e regala una seconda parte intrisa di colori blues, concedendo addirittura ben tre bis in cui trova spazio l’unico standard della serata, vale a dire I’m Gonna Laugh You Right Out Of My Life inciso nel disco Jasmine del 2010 insieme all’amico Charlie Haden, scomparso proprio qualche ora prima del concerto. Vedere Jarrett in solo, ancora una volta, è davvero un privilegio e un piacere unico per una musica impossibile da etichettare, ma che rimane comunque al di sopra di qualsivoglia critica ad un personaggio che, visti i ripetuti flash scattati anche in questa occasione, evidentemente non ci meritiamo ancora.


Luglio Suona Bene prosegue con altri due concerti di primo ordine per quanto riguarda il cartellone jazzistico, due duetti per la precisione. Quello tra il nostro Bollani e il mandolinista brasiliano Hamilton de Holanda è ormai una collaborazione felice e duratura che prosegue da alcuni anni riscuotendo i meritati favori di critica e pubblico. I due portano in scena uno spettacolo fresco e coinvolgente in un repertorio mutevole che trae ispirazione dalla tradizione italiana e sudamericana, ripescando brani come Reginella, Oblivion, ma anche Loro e Autumn Leaves, e portandoli verso un terreno festoso a loro più congeniale dove potersi divertire al meglio. Bollani e da Holanda formano una coppia perfetta che si completa a vicenda, mettendo in scena uno spettacolo retto sui continui di dialoghi, frutto di un feeling finissimo, che consente ai due di sfidarsi in virtuosismi che non mancano mai di una forte musicalità, in un mix di tecnica, ironia e sostanza tutto da gustare . Un concerto leggero che piace, senza alti né bassi, che scorre via piacevole per tutta la sua durata raccogliendo gli applausi convinti di una cavea esaurita già in prevendita, e che proietta meritatamente i due verso il prestigioso Festival di Newport in programma i primi di agosto.


L’incontro tra il sax di Wayne Shorter ed il piano di Herbie Hancock chiude in grande stile il mese di luglio per un duo che sa di storia. Due meravigliosi compositori prima ancora che musicisti, e una storia leggendaria che parte da lontano, quando a metà degli anni novanta erano l’essenza di quella che forse rimarrà la miglior formazione di Miles Davis. L’eterna ricerca e la voglia di mettersi sempre in gioco ha caratterizzato le carriere di entrambi, lasciando sempre la speranza che qualcosa di nuovo possa accadere ad ogni loro esibizione. Ecco che l’aspettativa per questa nuova data era tanta, e non soltanto per i nomi dei protagonisti. A Hancock, di qualche anno più giovane e sicuramente più forma, il compito di guidare il compagno verso una musica sperimentale che lascia inizialmente spaesati, con le influenze elettriche tipiche degli anni ’70 che ritornano prepotentemente alla ribalta. Shorter, come suo solito negli ultimi anni, suona poco, più che altro il sax soprano, ma lo fa da fuoriclasse, con interventi fatti di poche note ma dirette al punto giusto. Gli ambienti sonori di Hancock lasciano parecchia libertà al compagno, ma appaiono a lungo andare troppo monocordi per offrire spunti interessanti, cosicché anche i soli di Shorter faticano a trovare una direzione da intraprendere, apparendo spesso fini a sé stessi, mentre non convincono affatto i suoni ricercati del sintetizzatore del pianista. Nella seconda parte, decisamente migliore, le cose appaiono andare finalmente per il verso giusto, con Hancock che recupera i suoni tanto ricercati degli anni di Rockit e Chameleon, ambito ideale per le felici intuizioni di uno Shorter più a suo agio. Alla fine i due regaleranno soltanto un bis, finalmente acustico, per nemmeno un’ora e mezza di un concerto che poteva e doveva dare di più.


Sempre a luglio, la Cavea ospita per una serata la nuova edizione del sempre accattivante Meet In Town, la rassegna dedicata alla musica elettronica ed alle nuove sonorità che quest’anno ospita l’atteso live dei Massive Attack, gruppo di riferimento di quel Trip hop nato a Bristol negli anni ’90. La band si presenta al gran completo, con una ritmica portentosa formata da ben due batteristi, ed un uso massiccio di distorsioni a garantire un suono diretto e corposo. Nonostante però il talento cristallino delle voci di Martina Topley-Bird e Horace Andy ed un impianto sonoro all’altezza, il gruppo non riesce mai garantire quell’impatto devastante non solo delle registrazioni su disco, ma anche di quei loro dj set ricchi di contaminazioni black. Sovrastati da un impianto di luci e schermi al led che proiettano messaggi più o meno accattivanti che richiamano di continuo il loro essere contro il sistema, i Massive Attack si spostano qui verso direzioni più rock ed industriali in cui anche i brani più noti, come Teardrop e Safe From Harm, vengono dilatati perdendo parecchio da tutti i punti di vista, in una dimensione dal vivo per di più mal gestita, con inspiegabili pause tra un brano e l’altro di alcuni minuti. Un live curato più nella forma che nella sostanza, con i musicisti che alla fine si concedono furbescamente agli abbracci della folla per un’ora e poco più di uno show che lascia delusi non poco.