Foto: La copertina del libro
Luca Vitali, Il suono del Nord
Auditorium – Collana Rumori 25 – 2013
Luca Vitali segue da anni le storie, le evoluzioni, le nuove personalità della scena nordica e, in particolare, norvegese. Con passione e competenza, con presenza fisica e autorità riconosciuta dagli stessi musicisti e operatori del panorama artistico. In pratica, era “predestinato” – anzi, sarebbe meglio dire che si era destinato – a compiere l’operazione realizzata con Il suono del Nord: vale a dire, una ricognizione della storia e del presente del jazz e delle musiche di improvvisazione presente in Norvegia, estremamente curata e approfondita da fatti e connessioni e arricchita da un doppio corredo fotografico di immagini “storiche” e scatti effettuati direttamente dall’autore.
La scena jazzistica norvegese è in realtà una comunità capace di una evoluzione costante negli ultimi cinque o sei decenni. L’indagine di Vitali parte dalla presenza di George Russell e dalle prime edizioni del Molde Jazz Festival. Siamo negli anni sessanta: Russell sarà una presenza fissa e fondamentale nella seconda metà, il festival prende le mosse nel 1961 e si afferma a livello internazionale nelle successive edizioni. E si aggiungono poi via via il contemporaneo fermento artistico di Oslo e la nascita e il successivo sviluppo di una generazione di musicisti pronti ad usare le novità del jazz per sperimentare linguaggi diversi da quelli tradizionali, ma abili allo stesso tempo, seguendo i suggerimenti di Russell e di Eric Dolphy, di guardare alle musiche popolari dei propri territori come linfa alla quale attingere.
Le contingenze e gli ingredienti autoctoni si mescolano in maniera fruttuosa. L’intervento di Manfred Eicher, il percorso seguito dal Conservatorio di Trondheim, la presenza delle marching band, le stesse difficoltà causate dalla conformazione geografica del paese, dal clima e dalle quantità di luce: sono tutti elementi che concorrono, in maniera differente a seconda dei momenti e delle personalità, su quanto avviene a livello musicale. Questi argomenti e altri ancora vengono esplosi nel libro, in una successione di capitoli che presenta musicisti e realtà e riferimenti e porta il lettore fino all’esperienze di fine millennio, Nu Jazz, Khmer e Jaga Jazzist.
La seconda parte del lavoro si concentra sui musicisti – già affermati o in fase di emersione – che vanno a raccogliere il testimone delle prime generazioni. Esperienze già presenti nei lavori più recenti della ECM o nati all’interno di “contenitori” promossi da alcune figure di riferimento o da alcuni degli stessi artisti, realtà che, negli anni, abbiamo imparato a conoscere anche al di fuori dei confini norvegesi e che hanno saputo mantenere traccia di movimenti più eccentrici e di combinazioni istantanee.
I fatti principali sono – e il quadro tracciato da Vitali li evidenzia in modo significativo – la capacità di condivisione e l’immediata ibridazione, sin dalla metà degli anni sessanta, delle espressioni tanto da poter dire, con l’autore, che si tratta di una scena dove la domanda “ma questo è jazz?” perde istantaneamente ogni significato. Se per la seconda questione parlano i tantissimi lavori registrati da Jan Garbarek, da Arild Andersen, Jon Balke, Sidsel Endresen (alla quale viene dedicata la copertina del libro), Terje Rypdal, Jon Hassell, Nils-Petter Molvær, Bugge Wesseltoft e da tutta la lunga schiera di artisti presenti nel catalogo ECM e, ancora, dalle prove su Rune Grammofon, la prima è forse ancora più centrale, determinante e decisiva. Non bastano le considerazioni demografiche e l’organizzazione: la visione intergenerazionale con gruppi che uniscono musicisti di età differenti e in grado, per questo di portare stimoli differenti nella musica, come riporta Andersen nell’intervista pubblicata a luglio su Jazz Convention; l’idea di cooperazione tra musicisti, il Jazzforum nasce prestissimo, e tra festival ne è una conseguenza. Non è solamente il concetto pur presente, che l’unione faccia la forza: è un elemento presente a un livello più profondo, non vissuto come soluzione di comodo. Per carità, non si pensi che non ci siano reciproche diffidenze e che tutti sono forzati a collaborare. Il libro mette in evidenza come, però, «negli anni, ognuno di questi festival ha contribuito allo sviluppo della scena jazz norvegese, formando una realtà ricca e piena di giovani talenti grazie al coordinamento del Jazzforum, l’organo dove si definiscono le linee guida cui attenersi affinché ogni festival possa trovare e mantenere la propria identità e integrità senza sovrapposizioni.» Certo, la presenza di commissioni da parte dei festival e la possibilità di uno sguardo complessivo sono strumenti utili alla scena, ma senza una spinta costante non diventano efficaci, il lavoro e i finanziamenti delle istituzioni statali e delle “rete sociale del jazz norvegese” – alle quali Vitali dedica una preziosa appendice – cadrebbero nel vuoto se non fossero sostenuti alla base da un impegno preciso e metodico.
Il suono del Nord si addentra con profondità nei vari argomenti, pur senza appesantire la “narrazione”: se la strada tracciata dal progetto di partenza non poteva consentire una trattazione più veloce o priva di dettagli e dati, Vitali riesce quantomeno a trovare una maniera fluida nel presentare al lettore il materiale necessario per preparare le oltre trecento pagine del lavoro. Il libro è corredato anche da un compact disc: in cui vengono raccolti brani non un greatest-hits, come nota lo stesso Vitali, quanto una sorta di complemento audio del percorso seguito, la rappresentazione esemplificativa della pulsante vitalità della scena norvegese.
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