Talos Festival 2014

Foto: Fabio Ciminiera










Talos Festival 2014

Ruvo di Puglia – 11/14.9.2014

Il Talos è un festival di incontri. Nuovi o rinnovati, arditi o consueti: la “specialità” della direzione artistica di Pino Minafra è legare in maniera efficace i fili del passato, delle tante esperienze, delle tradizioni da rinnovare con le spinte provenienti dall’attualità e dal territorio. L’anno scorso avevamo preso la banda come esempio, quest’anno, in altra sede, prenderemo l’organizzazione stessa del festival.


Dalle note barocche dell’incontro tra il clavicembalo di Margherita Porfido e i clarinetti di Gianluigi Trovesi alle esplosioni sonore e infuocate di Girodibanda, diretta, istigata e scatenata da Cesare Dell’Anna, le quattro serate del programma internazionale del festival hanno portato nelle diverse ambientazioni della città pugliese un caleidoscopio musicale, concentrato sulla storia e sull’attualità delle musiche creative e di sperimentazione e attento a sottolineare il nesso con le radici storiche sempre presente nelle avanguardie. L’ultima giornata forse rappresenta l’esempio più vitale e presenta di questa linea. L’incontro dedicato alla storica etichetta inglese Ogun Records, l’omaggio a Steve Lacy proposto da Roberto Ottaviano in trio con Giorgio Vendola e Enzo Lanzo e, infine, l’incontro sul palco di Louis Moholo e Livio Minafra. Una convivenza naturale tra riferimenti e nuove strade, tra ricordo e prospettive, l’intenzione forte di stabilire una rotta che renda la memoria utile, che non la faccia diventare semplicemente nostalgica e, quindi, infruttuosa.


La scelta di giocare con le generazioni e con i diversi gradi di interazione tra scrittura e creatività estemporanea, il disegno delle serate con la presenza sul palco di formazioni estremamente ridotte, come il duo o il solo, prima delle esibizioni di organici ampi, l'”esplorazione” degli spazi offerti dal borgo e dalle sue nuove propaggini. Sono tanti gli elementi che concorrono a definire l’identità di un festival e il Talos 2014 ha ancora una volta trovato la sua strada, riconoscibile e precisa. Con un paradosso si potrebbe anche pensare che possa essere tanto forte da rendere il festival “prigioniero di sé stesso” e delle sue motivazioni più intime: la partecipazione affollata e gioiosa al workshop tenuto dall’ICP Orchestra dimostra che lo scatto in avanti può avvenire mettendo a contatto storia ed evoluzioni attuali, le diverse espressioni dell’entusiasmo portato dalla condivisione delle esperienze e dai primi passi.


Il momento centrale del festival è stato il concerto For Mandela dove la MinAfric Orchestra ha incontrato sul palco Keith Tippett, Julie Tippett e Louis Moholo. Il repertorio storico del pianista inglese, interpretato con grande partecipazione dall’organico di solisti messo insieme da Pino Minafra: la chiave del lavoro è stato il carattere stesso della MinAfric, la compenetrazione di organizzazione e improvvisazione radicale, la sintesi di esperienze diverse ma riconducibili comunque a un denominatore comune, la capacità di utilizzare gli accenti mediterranei del linguaggio del jazz. Le composizioni di Tippett hanno un percorso storico molto peculiare: vicino, vicinissimo anzi, alle esperienze del prog, il pianista ha sempre mantenuto una sua indipendenza espressiva. Le sue composizioni e il suo modo di intendere la musica mantengono perciò nel proprio e ben individuabile carattere, le tracce di una stagione importante dove si sono intrecciati rock e avanguardie, movimenti politici ed esperienze di lavoro intorno alla musica, come quella appunto della Ogun Records. La dedica a Mandela è stata il modo di mettere in evidenza una delle chiavi della carriera di Tippett e di Moholo: l’incontro della scena inglese con la diaspora dei musicisti sudafricani arrivati a Londra a causa dell’Apartheid. Sul palco, hanno rivissuto in un viaggio tra ricordo e presenza spirituale figure come quelle di Dudu Pukwana, Mongezi Feza, Johnny Dyani o Harry Miller. Purtroppo la tragedia vissuta dal Sudafrica nel secolo scorso, non è un caso unico: Pino Minafra ha ampliato il concetto con Canto General – la poesia di Pablo Neruda letta da Michele Sinisi e il suo omonimo brano – con una dedica a tutte le popolazioni sottomesse o martoriate dalle dittature.


Se l’incontro della Tankio Band, diretta da Riccardo Fassi, con Antonello Salis e le musiche di Frank Zappa è un percorso condiviso nel tempo, meno frequente è l’incontro di Gianluigi Trovesi con le sonorità elettriche del Quartetto Orobico. Il duo formato dall’austriaco Klaus Paier e dalla croata Asja Valcic è consolidato da due lavori pubblicati dalla ACT, ma sicuramente meno consueto sui palchi italiani. Concerti animati – come quelli, ricordati sopra, di Porfido e Trovesi e di Moholo e Livio Minafra – da una chiara matrice comune: mettere a confronto linguaggi e pratiche musicali differenti con l’intento di innescare una “staffetta” tra sensibilità e interpretazioni. Dialogo estemporaneo e attenzione all’arrangiamento – e in questo connubio possiamo inserire anche il concerto in piano solo di Tippett, tenutosi, come l’esibizione della Tankio Band, nel Palasport a causa del maltempo, con una acustica penalizzante per la prova dei musicisti e l’ascolto del pubblico – sono gli strumenti utili per muovere alla ricerca di soluzioni creative per questa musica. Se si vuole, è il modo con cui il jazz sfugge sin dalla sua comparsa a una definizione univoca, ma è anche il motivo che lo rende sempre e comunque vitale.


Infine, la presenza dell’Instant Composers Pool Orchestra sul palco di Piazzetta Le Monache, per i concerti, e nel Convento dei Domenicani, per le attività legate al workshop, alla proiezione del documentario su Misha Mengelberg, realizzato da Cherry Duyns, e alla mostra fotografica di Francesca Patella. Una partecipazione costante ai tanti momenti del festival, la condivisione di esperienze con i musicisti, la possibilità di poter scambiare opinioni e commenti con i tanti operatori invitati al festival e con il pubblico. Verrebbe da affermare che l’importanza di questi aspetti “accessori” o laterali, se si preferisce, sia importante per la manifestazione tanto quanto le attività presenti in cartellone. Il concerto della formazione, il solo di Han Bennink e il concerto finale del workshop hanno dimostrato come un’esperienza lunga ormai 47 anni possa rinnovarsi e trovare nuova linfa intorno a un’idea di partenza, grazie ad un meccanismo collettivo estremamente democratico ma mai del tutto anarchico. Un meccanismo in grado di mettere insieme tradizione e ricerca, capace di andare oltre gli aspetti meramente musicali per tracciare un disegno dove abitudini e – perché no – clichés convivono a fianco della curiosità, della spinta a promuovere nuove iniziative e – soprattutto, come testimoniato dai giorni ruvesi – della ferma, costante e impagabile voglia di raccontare e portare gli altri all’interno del proprio mondo. E il Talos, con tutte le sue specificità, si propone di seguire lo stesso insegnamento.



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