Karen Mantler – Business is Bad

Karen Mantler - Business is Bad

Watt Records – xtraWATT/14 – 2014




Karen Mantler: voce, armonica, piano

Doug Wieselman: chitarra, clarinetto basso

Kato Hideki: basso





Operina esile ed esigua questo disco di Karen Mantler, figlia di tanto padre (Michael) e tanta madre (Carla Bley). Un pop tanto raffinato da apparire inconsistente, condito qua e là con spruzzate di jazz, fornite dal robusto clarinetto basso di Doug Wieselman (ex Lounge Lizard), e con qualche pizzico di swing certo non destabilizzante.


Al primo ascolto si ha subito un’impressione di eleganza, di una souplesse malinconica non spiacevole intessuta di atmosfere vagamente minimaliste, colori tenui, delicatezze, fragilità. Al secondo l’aria si fa più rarefatta, i colori tenui si annacquano, i contorni diventano esili, sfrangiati, innocui. Al terzo si comincia ad avvertire un certo sentore di sazia vacuità.


Le melodie sono poco emozionanti, le armonie scarne e mai sorprendenti, la voce della Mantler (per non parlare della sua armonica) è addirittura leziosa.


Non è questione, comunque di generi. Business is bad appare da qualsiasi punto di vista lo si ascolti, un esercizio salottiero (anche se il salotto è un qualche loft newyorkese) un gioco un po’ narcisistico, un mettere insieme i pezzi di un puzzle dal disegno e dai colori poco originali.


Anche i testi, che pure vorrebbero descrivere il disagio della crisi economica imperante, sono dimenticabili: quasi futili in alcuni casi (Speak French). Si salva solo, da questo punto di vista l’accorata Surviving you. Si potrebbe dire, malignamente che la Mantler si è limitatata a scarnificare all’estremo certe atmosfere delle musiche materne (Il primo esempio che viene alla mente è Dinner Music). Ma agire per sola sottrazione può essere pericoloso. Il risultato finale, in mancanza di un forte senso poetico, può essere, come in questo caso molto deludente.


Senza i soli di Wieselman il disco non avrebbe tracce d’interesse per l’appassionato di jazz. Anche i fan del pop d’autore non troveranno, tuttavia, particolari motivi per esaltarsi.