Foto: Alvaro Belloni, dal sito di Vittorio Castelli
Vittorio Castelli: il racconto di una vita in jazz.
Vittorio Castelli, sassofonista, clarinettista, produttore, scrittore, conduttore radiofonico. Il prossimo 9 novembre, si esibirà al Circolo Bentivoglio di Milano alla guida del Jambalaya Six, insieme a Luciano Invernizzi al trombone, Fabrizio Cattaneo alla tromba, Guido Cairo al pianoforte, Pierluigi Sangiovanni al contrabbasso e Massimo Caracca alla batteria.
Jazz Convention: Cominciamo dall’inizio. Come ti sei avvicinato al jazz? cosa è stato a fare da tramite? Un film, un disco, un ascolto alla radio…
Vittorio Castelli: L’ambiente. Sono nato nel 1941 e ricordo che in terza media, al Convitto Valdese di Torre Pellice, c’erano due ragazzi che parlavano sempre di jazz. All’epoca non ne sapevo nulla, ma mi sembrava interessante anche se non riuscivo a capire molto delle loro spiegazioni un po’ confuse. Qualche tempo dopo, su Epoca, c’erano state alcune puntate sulla storia del jazz con molte fotografie.Mi era sembrata una storia movimentata, bella, con tante cose che succedevano.
JC: Qual è stato il primo disco che ti ha “iniziato” all’ascolto del jazz?
VC: Il primo ascolto, invece, è ancora precedente. Ricordo che una mia zia aveva qualche disco di Harry James, qualcosa di Duke Ellington. Senza saperlo, avevo sentito brani come Caravan, con questi suoni di tromba impressionanti, con le sordine Wah Wah. Il disco che mi colpi di più era un 78 giri di Harry James con i pianisti del boogie woogie: su un lato c’era Boo Woo e sull’altro Woo Woo. Erano due boogie woogie per tromba e sezione riti mica, uno con Pete Johnson l’altro con Albert Ammons. Sono una bomba ancora oggi… avevo undici anni, li sentivo senza rendermi conto
JC: Quando hai iniziato, invece, a suonare lo strumento hai cominciato da autodidatta, hai studiato al conservatorio?
VC: Ho cominciato nel 1957 a studiare il clarinetto alla Scuola Musicale di Milano, una scuola molto seria. Lì ho fatto tre anni, studiando teoria e armonia musicale. PErò la maggior parte me le sono imparate da solo, all’epoca nessuno ti insegnava nulla di jazz. Un conto è sapere dove mettere le dita se vuoi fare un Re Bemolle, un altro è sapere scegliere il momento da usare una particolare nota, con una particolare pronuncia.
JC: Con l’improvvisazione come te la cavavi?…
VC: Ho cominciato a casaccio. I primi esperimenti erano fantastici: c’era mio fratello che faceva finta di suonare il piano, faceva gli accordi a casaccio semplicemente portando il tempo. E io gli andavo dietro. E un altro ragazzino suonava una batteria costruita da noi mettendo insieme dell’argenteria varia e attrezzi strani.
JC: Il primo gruppo, invece quale è stato?
VC: Praticamente quello… insieme ad un altro cugino e ad un altro amico che, nel frattempo, è diventato un avvocato abbastanza rinomato. È sopravvissuta anche una registrazione, ma è meglio non sentirla. E ci chiamavamo gli Hot Potatoes.
JC: Negli anni poi sono stati molti i gruppi che hai fondato e di cui hai fatto parte. So che hai suonato anche con la Bovisa (la Bovisa New Orleans Jazz Band è una celebre formazione milanese – n.d.r.)…
VC: È una bella storia che si sviluppa negli anni. Un mio compagno mi ha fatto conoscere Luciano Invernizzi. Con lui abbiamo suonato per la prima volta in pubblico in una band che si chiamava Old Storm Jazz Band che è in pratica la culla della Bovisa. Le successive evoluzioni hanno portato Luciano a suonare con loro, io suonavo i pezzi di King Oliver del 1923 con la Milan Creole Jazz Band. Dopo altri cambiamenti, è nata la Bovisa e all’inizio ne facevo parte anche io. Ne sono uscito e ho dato vita alla La Swinghera, alla milanese, insieme a mio fratello Guido, a mio cugino Duccio e altri. In teoria il gruppo è ancora vivo, quando siamo in quattro preferisco quel nome. Dopo vari cambi di formazione e sempre continuando l’attività, con l’aggiunta di Luciano Invernizzi e Fabrizio Cattaneo siamo in pratica arrivati ai Jambalaya Six.
JC: Qual è il mondo sonoro di Jambalaya Six? Il jazz classico, New Orleans, gli Hot Five…
VC: Il nostro riferimento sono i gruppi di Armstrong, un New Orleans un po’ più moderno, la nostra sezione ritmica è più vicina allo swing.
JC: Una curiosità… quanti dischi di jazz hai a casa?
VC: Avrò cinque o seimila long playing e i compact disc non li ho mai contati, aumentano maledettamente tanto, non so più dove metterli.
JC: Tu sei stato in tutti questi anni un animatore della scena jazz milanese, non solo come musicista ma anche come conduttore radiofonico di Europaradio, la radio diretta da Elda Botta e Sergio Leotta…
VC: La mia trasmissione si chiamava Il disco di jazz perchè volevo concentrarmi su un autore e sui suoi dischi senza dover fare un magazine, ed essere “costretto” quindi a saltare da un argomento all’altro. Prendevo un musicista, una serie di dischi e li facevo ascoltare in maniera integrale: non sceglievo, ad esempio, gli Hot five di Armstrong per fare sentire i pezzi migliori della loro carriera. Li mettevo tutti, dal primo all’ultimo in ordine cronologico… È stato bello il modo con cui mi sono avvicinato a loro. Una volta, dentro gli uffici di una casa discografica, ho visto una locandina con su scritto: EuropaRadio, due punti, i nostri collaboratori sono Duke Ellington, tutta una serie di nomi di mostri sacri americani e in mezzo avevano messo anche il mio nome. Mi sono fatto dare il loro numero da un amico comune e, un giorno, li ho raggiunti. Erano in un ufficio stretto e lungo che una volta era stato un negozio di parrucchiere. C’era Elda Botta e io le dico: «Salve, sono un vostro collaboratore» Lei mi risponde «Non lo sapevo» e al che io le ridico: «Nemmeno io lo sapevo… sono Vittorio Castelli». E da quel momento è cominciato tutto. E lì registravano in cantina, al piano di sotto. E sono stato io a proporre loro di far suonare i musicisti dal vivo, visto che c’era un po’ spazio a disposizione. Quando sono passati in Via Tortona, poi c’era spazio, avevamo il piano a coda e abbiamo avuto diverse esibizioni in radio, fino alla chiusura del 1998.
JC: Quali sono i tuoi ascolti oggi?
VC: Quando facevo il discografico, sentivo quello che dovevo sentire, anche le canzoni di Sanremo, e ho pubblicato dischi di tutti, appunto dal pop alle avanguardie. Per quanto riguarda i miei ascolti di oggi, il mio punto di vista è che con il free jazz negli anni settanta si è raggiunto il massimo possibile dell’evoluzione e li si è feramta. Da qual momento più che nuove evoluzioni o nuove formule, c’è stato in realtà un rimpasto, la storia è tornata indietro: siamo arrivati a una fase post-moderna che sinceramente mi interessa poco.
JC: Ma secondo te il jazz, allora, in che condizioni è in questo 2015? È vivo? resiste? sopravvive? non ha speranze?
VC: Il mio punto di vista è mosto radicale. Esiste, ma non esiste più come evoluzione: sono quarant’anni che non vedo più qualcosa che spinga in avanti. Anche se i musicisti di oggi leggono tutto, sono preparatissimi, studiano nelle scuole dove, a mio avviso, imparano tutti le stesse cose. Manca una nuova direttrice, manca il nuovo Duke Ellington, il nuovo Charlie Parker, il nuovo Coltrane: manca il personaggio che dia la sterzata per imboccare una nuova via