Slideshow. Martha J.

Foto: da internet










Slideshow. Martha J.



Jazz Convention: Così, a bruciapelo chi è Martha J?


Martha J: Una che ha buttato all’aria un sacco di cose (lavoro, famiglia, amici, case discografiche…) pur di fare musica e di farla a modo suo.



JC: Perché firmarsi solo con le iniziali?


MJ: Lo pseudonimo che uso per la musica è il soprannome che mi aveva affibbiato un amico abbreviando il mio cognome: per cui per tutti, amici, colleghi di lavoro ecc. sono sempre stata “la Marta”. Quindi è stato abbastanza automatico utilizzare questo soprannome anche per la musica, semplicemente aggiungendo una “h”. La J non sta per “jazz”, la J sta li perché all’inizio qualcuno mi aveva fatto notare che Martha e basta forse non suonava tanto bene e che ci voleva un cognome. Ho iniziato a pensarci, ma non mi veniva in mente niente di adatto finché ho rivisto il film Men in Black e ho deciso che J (il nome che Will Smith aveva nel film) era perfetto. Ecco quindi Martha J. Non è una gran storia, ma è così che è andata.



JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?


MJ: Primissimo ricordo: i 45 giri di Fred Buscaglione di mio padre, suonati nel mio mangiadischi di plastica bianca e verde. Risultato: a tre anni cantavo “sono l’uomo dal whisky facile…” e “Teresa ti prego non scherzare col fucile”. Credo che sia da qui che venga il fatto che per me è molto semplice cantare swing.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare una cantante?


MJ: Forse l’unico motivo è che ho sempre cantato, fin da piccolissima appunto: il mio gioco erano i dischi, non le bambole e più tardi invece di uscire (o di studiare!!!), me ne stavo ore a cantare e a suonare la chitarra. La musica ha sempre fatto parte della mia vita e cantare mi è sempre venuto naturale, tant’è vero che ho iniziato a prendere lezioni molto tardi, dopo aver registrato i primi album con le major, dopo aver fatto le prime tournée anche all’estero ecc. ecc.



JC: E in particolare perché una cantante jazz?


MJ: A parte l’imprinting swing di Buscaglione, non ho più ascoltato jazz fino all’università. Durante l’adolescenza sono passata dai Beatles a Joni Mitchell, dai Pentangle a Jorma Kaukonen, da James Taylor a Bob Dylan, e anche a gruppi come Genesis, Pink Floyd, Jetro Tull… Poi un amico, al primo anno di università, mi fece ascoltare l’album Ella Fitzgerald – Newport Jazz Festival, Live at Carnegie Hall del 1973 e da lì è cominciato tutto. Ho dovuto aspettare la fine degli anni novanta per trovare il coraggio e l’opportunità di lasciare da parte gli altri generi musicali e dedicarmi completamente a studiare jazz, ma in tutti quegli anni (in cui cantavo tutt’altro) ascoltavo di continuo Chet Baker, Billie Holiday, Frank Sinatra, Louis Armstrong, Ella Fitzgerald e anche le grandi orchestre di Ellington, Count Basie…



JC: E da chi hai appreso di più fra questi “mostri sacri”?


MJ: Il mio primo “insegnante” di jazz è stato Chet Baker: mi piaceva perché cantava i temi senza fare troppe storie, senza dover dimostrare per forza di essere bravo e lasciando parlare la musica. Quindi per imparare, copiavo da lui.



JC: Ma cos’è per te il jazz?


MJ: Domanda difficilissima, da grande musicologo! Mi salvo perché vuoi sapere che cos’è “per me”. Dunque per me, che sono refrattaria alle convenzioni e che non riesco a stare dentro nessuno schema, jazz significa non solo essere autorizzata a cambiare le cose alla mia maniera, ma anzi essere considerata brava se non copio da nessun altro. Significa essere libera di eseguire un brano ogni volta in maniera diversa, anche a rischio di sbagliare. Significa esplorare armonie e linee melodiche sempre più complesse. Per me il jazz è stato una liberazione.



JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla tua musica?


MJ: I temi degli standard jazz mi sono molto vicini: mi piace rotolarmi in quelle melodie così gustose da interpretare, in quei testi così pieni di storie (d’amore quasi sempre, sia sereni che tristi), e anche pieni di stereotipi se si vuole, ma vanno bene così.



JC: Vale anche per i brani che componi tu?


MJ: Nelle “cose” che scrivo io, credo che di fondo ci sia sempre una nota malinconica, un po’ di male di vivere… questo non vuol dire che i miei testi o le canzoni che scelgo sono sempre tristi, anzi, ma anche nella canzone più leggera ci metto una nota ironica che tinge di blu (blues???) l’atmosfera. Credo che molto del mio scrivere possa essere stato influenzato da Joni Mitchell, da cui forse ho imparato a raccontare le piccole cose del quotidiano partendo dalle emozioni. Il mio lato ironico, invece, lo devo senz’altro a Enzo Jannacci, un altro grandissimo artista che ho ascoltato tanto fin da piccola e che ancora oggi spesso ritorna nei miei ascolti.



JC: Tra i dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionata?


MJ: Ognuno dei cd che abbiamo realizzato dal 2008 ad oggi rappresenta un fotografia di come ero / eravamo nel momento in cui l’abbiamo registrato. Quando oggi mi capita di ascoltare i primi due album con gli standard jazz (That’s it” e No One but You del 2008), mi sento come quando guardo le foto di quando ero piccola, anche se ancora apprezzo la leggerezza e la semplicità (volute) con cui ho affrontato certe ballad (Lush Life, Sophisticated Lady, e anche Stompin’ at the Savoy). Credo che sia stato molto importante per noi anche il primo cd in quartetto con brani scritti da Francesco Chebat e da me (Dance Your Way to Heaven): è stato un bel salto nel buio, pensandoci oggi. Però ha permesso la nascita del nuovo album Pas de Deux che credo sia quello che mi sento più addosso.



JC: Allora parlami di Pas de Deux…


MJ: Pas de Deux è eseguito solo con voce e piano, con Francesco Chebat appunto al pianoforte, e raccoglie quasi tutte canzoni originali, che abbiamo scritto Francesco e io. Credo che questa volta abbiamo messo a fuoco con maggiore precisione il nostro modo di porci musicalmente, sia dal punto di vista della composizione che da quello dell’esecuzione. Abbiamo lavorato con l’obiettivo di mettere la musica in primo piano e comunicare emozioni, lasciando spazio non solo all’introspezione ma anche al ritmo e all’energia. Dai riscontri che stiamo avendo, credo che in qualche modo siamo riusciti a coinvolgere positivamente chi ascolta. Vedremo cosa riusciremo a fare la prossima volta!



JC: E tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?


MJ: Tanti, ne porterei! Dovrei prevedere una valigia molto grande! Se ne dovessi scegliere solo uno credo che così al volo porterei Abbey Road dei Beatles.



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica?


MJ: Maestri nella musica ne ho avuto tantissimi virtuali: intendo dai dischi, ma ne abbiamo già parlato. Di maestri di musica veri non potrei citarne uno in particolare e più che “maestri” li chiamerei “insegnanti”. Non per colpa loro, sicuramente, ma per il mio patologico rifiuto di farmi dire come si fanno le cose e di farle come viene insegnato (cioè così come fanno tutti gli altri). Agli insegnanti di canto che ho avuto (primo di tutti Andrea Tosoni, poi anche Monica Scifo e la soprano Edith Martelli e infine Rachel Gould) ho permesso di lavorare sulla mia voce solo dal punto di vista strettamente tecnico. Non credo di aver mai portato una canzone su cui lavorare insieme: l’elaborazione della tecnica, cioè la parte espressiva, è una cosa mia privata che non ho mai discusso con nessun insegnante. Musicalmente ho imparato moltissimo anche da Francesco Chebat (il pianista con cui collaboro e con cui ho fatto tutti i miei dischi dal 2008 ad oggi).



JC: E “maestri” nella cultura, nella vita?


MJ: Nella cultura e nella vita invece ho avuto la fortuna di trovare due persone il cui ruolo sarebbe stato quello di semplici insegnanti e invece sono stati dei veri e propri maestri: la mia maestra delle elementari, Carmen Petazzi, e il mio professore di lettere del Liceo, Giuseppe D’Arrigo. Sarebbe troppo lungo spiegare il perché, ma veramente mi hanno cambiato la vita. Ovviamente anche i miei genitori hanno fatto la loro bella parte (anche se non gli ho resa la vita facile, a partire dai dischi di Buscaglione rovinati nel mangiadischi!) e anche la mia nonna paterna che mi era molto vicina.



JC: E le cantanti che ti hanno maggiormente influenzata?


MJ: Un po’ li abbiamo già citati (maschi e femmine)… in ordine di apparizione, la mia voce è stata plasmata da quelle di Joni Mitchell, di Jacqui McShee dei Pentangle, di Chet Baker, di Ella Fitzgerald e Billie Holiday, di Dinah Washington…



JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera?


MJ: Difficile dirlo. In generale i momenti belli sono quando sei a registrare in studio, quando riesci a fare un bel concerto in un bel posto (che non vuol dire un posto grande o un festival importante, ma un posto dove per qualche strana alchimia del luogo e della gente presente, riesci a creare proprio una bella atmosfera). Quando qualcuno scrive una bella recensione o ci racconta di cosa ha provato nell’ascoltare la nostra musica, mettendo in luce proprio le cose su cui abbiamo tanto lavorato: anche questo è un bel momento.



JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?


MJ: Prima di tutti Francesco Chebat, con cui lavoro ormai dal 2007 e con cui ho pubblicato 6 CD. Poi i musicisti del quartetto, Roberto Piccolo (contrabbasso) e Stefano Bertoli (batteria). Una nuova collaborazione interessante è con il batterista Francesco Marzetti (che adesso sta a Parigi, ma con il quale io e Francesco stiamo lavorando su un nuovo progetto elettrico che si chiama The Soul Mutation). Da quando mi sono dedicata al jazz ad oggi, ho suonato con moltissimi musicisti e sono stata fortunata, perché mi hanno consentito di imparare molto. Fra questi, ricordo con affetto Giovanni Monteforte, Carol Sudhalter, la giovane chitarrista Giorgia Hannoush… e anche Antonio Zambrini, Guido Bombardieri, Marco Gotti, Marco Bianchi (il vibrafonista). Anche, sto lavorando molto bene con il bassista Enrico Galetta, tornato da poco dagli USA e con il quale sto cercando di portare in giro un progetto solo voce e basso elettrico.



JC: Come vedi la situazione della musica in Italia?


MJ: La domanda che mi fai purtroppo mi costringe a dare la solita risposta un po’ lamentosa, polemica e tristanzuola. La situazione musicale è forse nient’altro che la punta dell’iceberg della situazione di molti altri settori in Italia. A questo proposito, un’amica mi ha detto: «Dicono che vogliono fare le cose, ma non le vogliono fare davvero.» Trovo che questa osservazione sia vera, non solo in campo musicale o culturale, e mi irrita molto.



JC: Ci troviamo in un momento particolarmente critico…


MJ: Un’altra cosa che mi sembra di rilevare, è che la funzione della musica viene travisata: la musica è vissuta come un sottofondo sopra il quale si ha il diritto di parlare, come una cosa che serve per ballare o per fare festa, o per cantarci sopra… la musica è anche tutto questo, certo, e va bene. Ma la musica prima di tutto è una cosa che si ascolta. E ha valore anche se non si può ballare, se non si può cantarci sopra ecc. Concepire la musica solo come qualcosa che mi serve per fare altro, è come ad esempio dare valore ad un quadro di Picasso per il fatto che è della misura adatta per coprire un buco sul muro o che si accompagna bene con il colore del divano. A mio parere, questo è uno dei motivi per cui sempre più musicisti italiani bravi che conosco vanno a vivere all’estero (Parigi, Berlino, New York…). Lì, nonostante le difficoltà, si sentono ben accolti e percepiscono che il loro lavoro viene considerato e rispettato, trovano terreno fertile per coltivare il loro talento, trovano molte occasioni per suonare in contesti decorosi e opportunità per proporre la loro musica. Ci sarebbero molti altri esempi che testimoniano del fatto che le cose qui da noi non stanno andando proprio come si deve, ma li conosciamo già tutti e sono stati esposti da persone molto più autorevoli di me. La denuncia del problema non si deve trasformare in continuo lamento, perché frena l’entusiasmo e non aiuta il nostro lavoro.



JC: E più in generale il tuo giudizio oggi sulla cultura in Italia?


MJ: Idem come sopra. Vale la legge dell’audience, panem et circenses, vogliamo Barabba… quella roba lì. Però ripeto: basta lamentarsi! Pensiamo a cosa fare! Noi, nel nostro piccolo, così come tanti altri artisti che conosco, continuiamo a scrivere e produrre la nostra musica, a cercare di proporla dal vivo, creando e sostenendo delle “bolle” più o meno sotterranee (come ad esempio all’Associazione ArtHaus di Bergamo o the Lift a Milano), dove diversi artisti possono presentare il loro lavoro ad un pubblico non vasto, ma interessato.



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


MJ: Oltre al lavoro in duo che è stato fissato su cd con Pas de Deux, io e Francesco stiamo scrivendo nuovo materiale per un trio elettrico che abbiamo chiamato The Soul Mutation e che vede la collaborazione del batterista Francesco Marzetti. Abbiamo già registrato un cd, anch’esso disponibile su Band Camp, presto ci saranno anche un paio di video e credo il prossimo anno anche un nuovo album, per il quale stiamo già scrivendo nuovi brani. Anche, per l’immediato futuro, ci piacerebbe riuscire a portare dal vivo Pas de Deux: le premesse ci sono tutte, l’accoglienza da parte dei critici che abbiamo contattato è positiva e anche il riscontro del pubblico. Vedremo se saremo capaci di ottenere la stessa attenzione da parte degli organizzatori di festival ed eventi musicali.