Il Soul Factor di Cristina Zavalloni.

Foto: la copertina del disco










Il Soul Factor di Cristina Zavalloni.


Si chiama The Soul Factor l’ultimo disco di Cristina Zavalloni. L’artista bolognese l’ha progettato ed elaborato con Uri Caine. Il titolo stesso dice le intenzioni. Si tratta di una serie di brani in chiave Soul. Tutti originali, firmati quasi sempre a quattro mani dai due autori, eccetto una bella cover di A natural Woman.


Un disco insolito, un po’ laterale rispetto al pur variegato percorso artistico della Zavalloni.


«Quando Enzo Capua mi propose di lavorare su materiali soul ero molto indecisa. Non per il genere musicale in sé. Enzo pensava a una serie di cover di brani di Aretha Franklin. Io titubavo, perché proprio io? Dopo lunghe chiacchierate abbiamo concordato un progetto di brani originali, un disco nel quale io avessi la massima libertà di muovermi su questi territori nuovi, un po’ inediti. Ho avuto carta bianca ed ho chiesto di lavorare con Uri Caine. Musicista duttile, libero, poco schematico. Un uomo di mente aperta. Abbiamo lavorato su un terreno del tutto paritario. Esperienza abbastanza nuova per me che di solito ho un controllo quasi totale sul mio lavoro. Qui sono stata costretta, lavorando con Uri, a un gioco continuo di resistenze e abbandoni, a una discussione continua e avvincente su ogni singolo aspetto dl progetto. In questo senso è una tappa importante nella mia carriera. Certo è anche la prima volta che interpreto un repertorio così diverso dal mio, che mi rivolgo ad un pubblico che magari utilizzerà The Soul Factor come sottofondo, come musica d’ambiente. È stata un’esperienza bella e insolita. Io penso che gli artisti siano persone molto più semplici di quanto immaginate voi che ne scrivete. Non necessariamente un musicista deve seguire un cammino lineare. Come in molte altre situazioni della vita capita che ci si innamori di un progetto. Ci si lascia trasportare dalle sensazioni di un momento. Si da vita ad un progetto, poi lo si abbandona e s’incontrano o si sognano cose nuove. Senza schemi precisi né tanto meno prefissati. Non credo di essere la sola a ragionare così. È la vita che crea occasioni e possibilità.»


«È vero, in alcuni pezzi servivano delle coriste ma alla fine i produttori hanno insistito perché io fossi l’unica voce del disco: ho utilizzato il mio strumento sovraincidendo varie parti. Ogni processo creativo ha la necessità di una buona dose di artigianato. Io ho avuto la fortuna di apprendere il mestiere da mio padre, Paolo Zavallone, il quale è stato un grande artigiano della musica. Ha suonato e composto, vendendo milioni di dischi, in contesti diversissimi: dalle colonne sonore ai festival di Sanremo, dalle sale da ballo a mille altre occasioni. Ama definirsi un creatore di successi fondati sul niente. Quello che lui chiama niente è in realtà una conoscenza tecnica profonda del suo lavoro. Ho avuto, come artista, anche quest’aspetto della formazione. Quella di mio padre era un po’ come una di quelle “botteghe” medievali o rinascimentali, dove un maestro insegnava ai giovani i rudimenti dell’arte. Poi molti di loro spiccavano il volo, ma avevano nel loro bagaglio questo non secondario patrimonio di concretezza, di capacità di adattamento. Certo, ho sentito il bisogno di avventurarmi su sentieri completamente diversi da quelli di mio padre. In qualche maniera ho sempre cercato di distanziarmi dal quel suo mondo; la mia anima musicale nasce da una sorta di sana ribellione. Ma ho imparato tanto da lui.»


«Mi chiedi come vedo la musica del futuro. È una domanda tipica che fate voi giornalisti. Se devo dirti la verità, è una faccenda talmente enorme che cerco di non pensarci. Per quanto mi concerne io ho scelto una strada molto semplice. Ho bisogno di cantare e comporre musiche che mi emozionino. Musiche viscerali, che parlino alla mia anima. Cerco di parlare all’anima di chi mi ascolta. Non mi interessa altro. Ascolto solo chi è in grado raccontare o evocare moti interiori; m’interesso a chi mi “destabilizza” emotivamente, a chi mi culla con leggerezza, a chi mi fa ballare con gioia. Mentre ciò che è squisitamente cerebrale mi lascia ormai indifferente: le discussioni teoriche, sui generi, non mi appassionano più. Magari apparirò schematica, pazienza. Se alla fine dei miei concerti, qualcuno si commuove ascoltando Que sera sera, allora sono felice. La maternità recente, la pienezza che provo in questo periodo, hanno solo dilatato ulteriormente questa mia propensione verso la comunicazione emotiva.»