Foto: Cristina Vatielli
Roma Jazz Festival 2014: Swing e New Deal
Roma, Parco della Musica – 14/30.11.2014
La trentottesima edizione del Roma Jazz Festival ha come filo conduttore il legame tra lo Swing e il New Deal in un inevitabile parallelismo tra la crisi che investì gli Stati Uniti, con il crack di Wall Street del 1929, e l’attuale momento storico che stiamo vivendo. Il Jazz, ed in particolar modo lo Swing, si affermò infatti proprio in quegli anni facendo da colonna sonora alla politica del New Deal, divenendo un momento di svago quasi curativo per tutti indistintamente, in un periodo di depressione collettiva. Il cartellone di quest’anno manca del nome altisonante, ma offre, in una quindicina di giorni filati all’Auditorium, una serie di concerti con parecchi spunti di interesse.
L’apertura è incoraggiante e fa registrare il primo tutto esaurito per l’incontro di due musicisti che hanno caratterizzato con stile la musica afroamericana degli ultimi cinquant’anni, il pianista classe 1943 Kenny Barron ed il contrabbassista, di poco più giovane, Dave Holland. Da circa due anni i due formano una partnership che li ha portati a calcare i palchi di tutto il mondo e, quest’anno, alla pubblicazione di un album in studio dall’emblematico titolo The Art of Conversation. Elegante e raffinato, il duo da vita ad un concerto di rara bellezza e morbidezza in un repertorio poggiato proprio sui brani dell’ultimo disco in uno splendido equilibrio dei ruoli, in cui il finissimo interplay mette da parte ogni forma di virtuosismo o forzatura. Il duo alterna omaggi ai grandi del passato, rimanendo comunque sempre fedele alle partiture degli autori (dal Parker di Segment alla In Walked Bud di Monk), a brani originali dove spiccano le composizioni di Barron, con una languida e toccante Rain alla quale contrappone una più festosa Calypso, ed una notevole Pass It On di un Holland in gran forma. È proprio quest’ultimo a rendere il dialogo eccellente e condurre le danze per tutta la serata prendendo per mano il più anziano e pesante compagno di palco in una collaborazione solidale, dove rispetto reciproco e sinergia rendono l’arte della conversazione una autentica gioia da ascoltare.
Un’altra coppia, in questo caso due pianisti, è protagonista di un incontro altrettanto atteso quanto inedito. Si tratta infatti di due stelle della Blue Note che, nonostante l’ancora giovane età, possono già vantare notevole credito: Jason Moran e Robert Glasper. Reduci dalla tappa milanese del giorno prima, i due, così diversi per stile e formazione, paiono subito avere un ottimo feeling, regalando un originale quanto riuscito set alla fine molto apprezzato dal pubblico presente. I due musicisti propongono, in tre lunghi brani dall’andamento imprevedibile, una sorta di storia della musica nera partendo dal blues di Chicago degli anni ’30, in un terreno più familiare a Moran, passando per Monk ed Herbie Hancock, finendo per arrivare ai giorni nostri attraverso il brano On The Block del rapper Scarface, in un ambiente caro a Glasper. In mezzo tante improvvisazioni estemporanee e qualche evitabile virtuosismo di troppo che comunque non pregiudica la buona riuscita finale grazie al talento ed al tocco di Moran ed al ritmo di Glasper, apparentemente lontani ma in realtà ben compatibili.
Emozioni vere anche per il super gruppo messo insieme da Joe Lovano e Dave Douglas per un concerto dedicato alla figura del sassofonista Wayne Shorter. Non si tratta, come era facile attendersi, di una classica rivisitazione degli innumerevoli brani nati dal genio compositivo di Shorter, bensì nell’esposizione di composizioni scritte dallo stesso sassofonista per questo quintetto. I due frontman si intendono e completano a meraviglia in continui scambi ricchi di armonici: Lovano è un fiume in piena, ricordando il fitto fraseggio di Rollins, con Douglas altrettanto secco e diretto in una miscela esplosiva. Il tutto è poi impreziosito dai loro compagni che garantiscono una solida base. È infatti tutto l’insieme a girare a meraviglia, con una ritmica sfavillante che brilla di luce propria, garantendo una varietà sbalorditiva: Joey Baron alla batteria sembra indiavolato picchiando giù duro su pelli e piatti senza sosta, mentre Linda Oh al contrabbasso è la vera sorpresa, salendo pian piano in cattedra con il suo incedere unico ed un suono corposo. Un concerto tosto e non facile in cui i cinque regalano con maestria una musica preziosa sotto tutti i punti di vista interpretando non soltanto al meglio gli spartiti di uno Shorter ancora splendido compositore, ma portando avanti il suo linguaggio e la sua eredità nelle composizioni originali che i due leader hanno scritto in questi anni.
Ma è anche il festival dei musicisti italiani, con le esibizioni di due dei nostri migliori trombettisti, Fabrizio Bosso e Enrico Rava. Il primo è addirittura protagonista, nella grande sala Sinopoli, di un sold out, come ammesso dallo stesso a fine concerto, del tutto inaspettato ma che inorgoglisce. Accompagnato dal suo fedele trio, Bosso rilegge il songbook di Duke Ellington avvalendosi degli arrangiamenti di Paolo Silvestri e di una piccola ensemble di fiati prestati per l’occasione. Un omaggio in salsa swing che, partendo da Caravan, ripesca alcuni dei temi più noti del compositore americano per un concerto di facile presa che ha tuttavia il merito di avvicinare anche gli ascoltatori più distanti alla musica afroamericana in un terreno dove Bosso può con classe fare bella mostra di tutto il suo talento.
Il giorno seguente Enrico Rava decide di ripercorrere la propria carriera rileggendo le proprie composizioni in un arco temporale che parte dagli inizi degli anni ’70 per arrivare fino ai giorni nostri. Il trombettista parte proprio dal recupero di vecchi spartiti scritti nel suo primo periodo argentino in cui le influenze latin si fondono con quelle più free, caratteristiche che si ritroveranno anche nel resto delle scritture qui eseguite. Accompagnato dalla fidata PMJO, compagna di tanti degli ultimi progetti proposti in questi anni, Rava e compagni non riescono a convincere questa volta appieno: la ritmica infatti non è mai in grado di trainare l’ensemble di fiati e anche gli interventi di Guidi al piano appaiono fin troppo eccessivi, al contrario dei vari soli che non risultano mai incisivi e coesi in un contesto non ben amalgamato.
La settimana conclusiva vede altre due stelle di un certo peso far registrare il gran pienone: il 25 sbarca sul palco della Sinopoli la cantante Dee Dee Bridgewater in testa ad un quintetto di giovani brillanti musicisti. Introdotta da due bei brani strumentali, in cui i cinque si sfidano a colpi di assoli freschi e tirati, la cantante di Memphis fa il suo ingresso sulle note di Afro Blue con il piglio e la verve della grande diva, accolta come sempre con calore dal pubblico romano. Incalzata dai ritmi sostenuti del suo gruppo e non essendo vincolata da nuove uscite discografiche, la Bridgewater è qui più libera di scegliere i brani che più la divertono: nella prima parte omaggia in maniera personale i suoi idoli di sempre Billie Holiday e Abbey Lincoln, propone una Love For Sale dai toni sexy ed ironici e lascia carta bianca ai suoi validi musicisti per una A Foggy Day da favola in cui completa una sezione fiati giocando a colpi di scat con le fresche note della tromba di Theo Croker ed il contralto di Irwin Hall. La seconda parte è ancora più travolgente con i cinque musicisti che improvvisano sui ritmi funk più spinti di Stevie Wonder, James Brown e Michael Jackson, con la Bridgewater che canta e balla come una ragazzina carica di una energia contagiosa che manda in visibilio il numeroso pubblico, tutto in piedi ad accompagnare le note di una Sex Machine proposta come bis conclusivo.
Chiusura col botto con un personaggio che mancava da Roma con un suo gruppo da diverso tempo, ossia quel Biréli Lagrène che si può tranquillamente definire come uno dei maggiori esponenti del Jazz Manouche reso celebre dai temi di Django Reinhardt. Il chitarrista francese si presenta con una formazione ridotta all’essenziale, con una ritmica affidata alle corde della chitarra di Mathieu Chatelaine e al contrabbasso di Gautier Laurent, con il sassofono di Frank Wolf ad esporre principalmente i temi e Lagrène a deliziare e arricchire il tutto con i suoi proverbiali e vertiginosi assoli. I quattro danno vita ad uno spettacolo intenso e delicato, immergendo gli spettatori in quelle sonorità anni ’30 ricche di swing ormai familiari ai più, dove, a prescindere dal tema proposto, è impossibile rimanere fermi. Un raro esempio di virtuosismo e tecnica che coinvolge grazie al gusto ed alla forte musicalità dei brevi e veloci brani in scaletta, dove Lagrène è capace di far scattare una vera ovazione dopo ogni suo assolo in un successo travolgente che costringe il quartetto a tornare sul palco anche una volta accesesi le luci per una Minor Swing che meglio non avrebbe potuto concludere un festival con un tale tema.
Una manifestazione che ancora una volta vince la sua sfida in termini di qualità e partecipazione con un cartellone, visto anche il titolo di quest’anno, dalla forte impronta mainstream. La speranza è tuttavia quella di assistere in futuro a qualche edizione che guardi anche alle varie contaminazioni del presente con lo sguardo rivolto al domani.