Miles On Miles

Foto: la copertina del libro










Miles On Miles


Ascoltare la musica, leggere di musica e di musicisti, specialmente quando si traduce in passione, è gratificante perché ci permette di conoscere anche come nascono certe composizioni, quali sono le circostanze che hanno indotto l’uno o l’altro musicista a scrivere di questo piuttosto che di quello.


Le rassegne che coniugano l’ascolto della musica alla lettura di testi specifici sono molteplici e, mettendo in evidenza fatti e vite di musicisti, o loro interviste appunto, rendono un grande servizio al lettore evidenziandone le peculiarità. Ecco perché i libri che di ciò trattano diventano importanti e tra i diversi relativi alla musica che spiccano in bella evidenza, in vetrina, durante il periodo prenatalizio, come occasione di regalo, uno in particolare mi ha colpito.


Il titolo: Miles On Miles, Edizioni Odoya, in brossura e venduto a 20 euro.


Quindi un nuovo libro su Miles Davis. Ben tradotto dall’opera originale scritta da Paul Maher Jr. e Michael K. Dorr, edita negli Stati Uniti, nel 2009, da Lawrence Hill Books, con una stringata, ma succosa, prefazione di Paolo Fresu, ed una efficace ed esauriente introduzione di Stefano Zenni, i quali fanno da cornice alla Premessa che i due autori hanno sentito il dovere di far precedere ai testi delle interviste, sono ben trenta, su cui si basa il libro.


Coincidenze di date, passioni comuni espresse a continenti di distanza: la musica avvicina le genti. Infatti, nell’estate del 2009 anch’io stavo scrivendo un libro sullo stesso musicista: Miles Davis Principe delle Tenebre, pubblicato poi nel 2010, nell’imminenza dei vent’anni dalla morte del Divino, dalla ETS di Pisa, ed è veramente importante che si continui, anno dopo anno, a parlare ed a scrivere di colui che, nel corso di quasi tre quarti del ventesimo secolo, ha via via cambiato la musica, spinto da una necessità di espressione individuale che ardeva in lui, quasi lo soggiogava.


Riferendomi a Miles (On Miles), riporto di lui due sole espressioni, fra le numerosissime che compaiono nei testi raccolti da più giornalisti e critici musicali, ed è un peccato che non ci siano anche quelli italiani: «piuttosto morire che suonare sempre la stessa musica» oppure «quando non suono penso alla musica, ci penso in continuazione. Quando mangio, nuoto, disegno, anche ora che ti parlo, nella mia testa c’è la musica. Non mi piace la parola “jazz” che ci hanno affibbiato i bianchi. E non faccio rock, suono black. Faccio il genere di musica che mi suggerisce il momento». Basterebbe questo per illuminare la personalità di questo genio della musica che, in maniera piuttosto riduttiva, viene definita afroamericana oppure jazz, parola che Miles odiava, perché coniata dai bianchi per definire la musica dei neri.


Paolo Fresu e Stefano Zenni fanno ricorso a due parole che, da sole, dovrebbero convincerci a fare, del libro, un’attenta lettura: il primo lo definisce imperdibile mentre il secondo, utilizza il termine di gergo afroamericano signifying, non un verbo qualunque ma un capolavoro di rovesciamento semantico per focalizzare il dualismo – Miles è nato sotto il segno dei Gemelli – del musicista di Alton, Illinois.


L’immagine che campeggia a pagina 180 del libro, una elaborazione fotografica che si riduce a due colori, il bianco ed il nero, «di una solarità scura come la sua pelle ma, allo stesso tempo, luminosa come il sole» come ci dice Paolo Fresu, contrasta per la sua essenzialità, con il rutilante insieme di dichiarazioni che emergono dalle interviste a Miles e delle conseguenti considerazioni che i vari Avakian, Hentoff, Olay, Saal, e poi Alberston, Brinkle, Feather, McCall e Nisenson, che si conclude con tre pubblicazioni di Mike Zwerin, sull’Herald Tribune, sette anni dopo la morte del trombettista.


Sono minuscole tessere, al tempo stesso grandissime, che compongono il puzzle dell’immagine di Miles Davis. Un puzzle ancora incompiuto, in divenire, così come è incompiuto il percorso della sua musica, che potremmo “leggere” attraverso la sua pittura – perché Miles disegnava e dipingeva -, o meglio comprendere attraverso il suo modo di porgersi, di abbigliarsi, di recitare – perché Miles è stato anche attore. Dice De Heer, il regista di Dingo, «il suo senso del tempo è fenomenale. A volte stai per suggerirgli la battuta successiva, perché sembra se la sia dimenticata; ed ecco che se ne esce con la frase giusta, nel momento esatto e non ti resta altro che una manciata di parole inutili in bocca». Sarebbero altrettante parole inutili se noi cercassimo di spiegare la sua musica. È diverso se vogliamo far scoprire lui.


Si riuscirà mai a conoscere, comprendere Miles, alternativamente definito intelligente, istrionico, irriverente e scontroso, ma anche avido; e poi grande, bello, affascinante e sarcastico? E con gli aggettivi mi fermo qui!


Anche dopo questo bel libro, che ci avvicina alla risposta, si continua, si continuerà ancora a parlare di Davis – Miles on Miles. Nella speranza che, finalmente, si comprenderà – almeno così mi va di concludere – che Miles era un uomo che ha vissuto con e per la musica, e non per i soldi ed il successo che gli ha portato, ma come atto d’amore verso di sé e di tutti coloro che l’hanno ascoltata e l’ascoltano. Perché Miles ha amato la musica, la sua “dominatrice”; l’ha cambiata e ne è stato cambiato. Se n’è andato Miles, nella consapevolezza che la sua musica non lo ha mai abbandonato, non lo ha mai tradito. Ed attraverso registrazioni, filmati, libri, la sua musica è ancora qui con noi e, lasciandocela, ha amato anche noi.


Ecco una buona occasione da non farsi sfuggire: al prezzo di pochi euro alcune ore di buona lettura, anche divertente, per indagare e scoprire la personalità di un autentico genio musicale del novecento: e fa venire il desiderio di ascoltarlo.