Foto: la copertina del libco
Gaetano Liguori (Con Agostino Matranga): Confesso che ho suonato.
Skira Edizioni 2014
Ci furono anni, tanti anni fa, in cui il jazz sembrava destinato a diventare una musica di massa: la colonna sonora di una società che cambiava tumultuosamente. Era un’Italia viva quella degli anni 70. Piena, come cantava De André, del disordine dei sogni. Un’epoca contraddittoria.
La vicenda umana e artistica di Gaetano Liguori è immersa in quel magma che oggi ci pare tanto lontano. Quasi preistorico. Il riff iniziale della sua Ballata per uno studente ucciso è quasi una sigla di quegli anni, al pari di certi pezzi della PFM o del Banco. E “quindi di particolare interesse questo Confesso che ho suonato, una tumultuosa cavalcata autobiografica che ripercorre” un vissuto inquietamente, senza risparmio. Una vita di battaglia, potremmo dire.
Il libro ripercorre gli anni delle grandi lotte operaie e studentesche e quelli del successivo riflusso, cogliendo in pieno quello che fu lo spartiacque simbolico fra i due periodi. Il grande concerto del giugno del 1979 che doveva servire a trovare i fondi per le costose cure di cui necessitava Demetrio Stratos e che si trasformò invece in un Requiem per il grande vocalist e, forse, per i miti di una generazione.
A differenza di molti suoi coetanei il pianista milanese non si è soffermato a piangere sui sogni giovanili. Ha continuato invece a sostenere la causa degli oppressi di tutta la terra, viaggiando in Palestina, in Nicaragua, nei luoghi del Sahara teatro di battaglia della guerriglia del fronte Polisario, in Eritrea. Senza sentirsi mai orfano delle speranze giovanili ha cercato altre strade nelle arti marziali giapponesi, in studi filosofici e mistici di ogni tipo. Per non dire del cinema, di cui Liguori è quasi un adoratore (le pagine sono letteralmente infarcite di citazioni di frasi tratte da film di ogni tipo (Western in particolare).
Confesso che ho cercato, avrebbe potrebbe intitolarsi tranquillamente questo libro.
Oggi non si può certo dire che l’autore della “Cantata Rossa per Tell el Zaatar” sia, per così dire, “nel giro giusto”. Al contrario è al di fuori dal circuito dei festival e dei concerti. Non sembra risentirsene più di tanto. Il suo mestiere d’insegnante di piano classico al Conservatorio di Milano gli ha permesso di poter continuare a lavorare sulla musica che più ama, di sperimentare liberamente senza l’ansia di doversi proporre a un mercato musicale certo non ben disposto verso i radicalismi. La musica militante non pare essere più di moda ma Liguori non rumina rancori, a differenza di tanti altri suoi colleghi. Non lo fa nel libro, non lo ha fatto in un lungo colloquio con l’autore di questa nota. Il suo giudizio sulla scena musicale attuale si ricava più dai suoi tanti silenzi che non dalle pagine del libro.
Certo, l’autobiografia è sempre un documento insidioso e incompleto. Sempre parziale. Gli anni ’70, ad esempio, furono anche da un punto di vista musicale un’epoca d’insensatezze (un solo esempio: a Chet Baker fu impedito di suonare in qualche festival in quanto considerato un fascista). Liguori non si sofferma troppo su queste contraddizioni. Ma l’obiettività è quasi sempre un mito, una categoria impraticabile e forse non del tutto utile. Irreperibile in quasi tutte le autobiografie.
Chi è d’accordo con Antonio Gramsci che afferma di detestare gli indifferenti e i non partigiani, apprezzerà probabilmente questo libro, pieno di passioni non ancora sopite e di gradevolissima lettura.