Erika Dagnino Trio – Sides

Erika Dagnino Trio - Sides

Slam Production – SLAMCD 557 – 2014




Erika Dagnino: testi, voce

Ken Filiano: contrabbasso

Satoshi Takeishi: percussioni





Erika Dagnino riprende e approfondisce la lunga e impervia strada della sua ricerca su parola suono.


Sides è, per molti versi la prosecuzione del precedente Signs, soprattutto dal punto di vista poetico-letterario. Le prime tracce si ricollegano a quelle del precedente disco. Sono intrise di un lessico drammatico ed abraso, scheggiato, che evoca ferite e lacerazioni; di una corporeità dolente. Se in Narcete, uscito nel 2011, si poteva seguire una pur sottile traccia narrativa, i due ultimi dischi sono parola pura, ricerca di suono in cui voce umana e corpo diventano strumenti musicali, il reading un momento d’improvvisazione del tutto paritetico con gli strumenti. Se nei dischi precedenti apparivano strumenti in qualche maniera “melodici” (tromba, sax, violino, xilofono), Sides è inciso in un trio che utilizza solo contrabbasso e le percussioni. Una scelta del genere è probabilmente dettata dalla ricerca di un suono complessivo più scuro, e grave: materico. «Il colore della parola – scrive la Dagnino – si veste di oscurità. L’espressività, dunque come gravità e tonalità oscura.»


Certo la performer si chiede anche se questo blocco scuro possa essere squarciato da graffi di luce o tralucere rivelando un’altra dimensione, magari imprecisa e sfumata, nebbiosa.


In questo gioco di luci, ombre e trasparenze, il ruolo del contrabbasso di Ken Filliano e delle percussioni di Satoshi Takeishi è centrale. I due sembrano entrare in una sorta di contrasto poetico con la voce. Sembrano quasi cercare la levità e/o la trasparenza traslucida di cui detto sopra. In qualche maniera danno un respiro, che talvolta appare quasi cantabile, alla spessa nube di suono e materia evocata dai versi della Dagnino, che propone le sue ricerche sonore sia in italiano sia nella traduzione inglese.


Una dialettica singolare ed affascinante che fa pensare, a volte, alle parole di Elvin Jones sull’ultimo Coltrane. Parole («Solo i poeti oramai lo capiscono») che sembrano alludere ad una certa incomunicabilità fra le due espressività.


Nell’ultima parte del disco la Dagnino spinge la sua ricerca su sentieri, ancora più radicali, esplorando la sonorità delle parole che designano i numeri. Nell’ultimo brano addirittura propone singoli vocaboli o nomi propri,in cerca di significati sonori, di fisicità della parola emessa.


È la parte meno convincente del disco, nel senso che la proposta perde, in parte, quella carica emotiva, quella narrazione aspra, quasi crudele che è la caratteristica più affascinante del lavoro della performer.


Un buon disco, comunque, immerso, in qualche maniera, nelle caligini melmose e dolenti del blues arcaico. Di quella “musica diabolica” che ha raccontato lo straniamento della condizione umana.