Foto: Roberto Panucci
Pino Daniele e il jazz
Anche per gli amanti del jazz si tratta di un grave lutto, che porta via un uono e un artista che, pur non facendo jazz direttamente, è in fondo jazzman nello spirito, possedendo l’anima del jazzista verace, molto più di tanti freddi sperimentatori: nel sito Pino Daniele, a mo’ di esergo, c’è scritto: «Una voce, una chitarra e un po’ di blues, di rock, di soul, di funky, di suoni arabi, di radici napoletane, di jazz, di salsa, di samba, di taramblù, quel posto magico dove la tarantella incontra Robert Johnson, ora anche di melòrock». È dunque chiara fin da subito la consapevelzza di c’entrare qualcosa se non con il jazz in primis, almeno con tutto il resto della grande black music: «Il nero a metà, l’americano della nuova Napoli che sognava di veder passare la nuttata, il mascalzone latino, il Lazzaro felice, l’uomo in blues, il musicante on the road, il neomadrigalista, cantautore che negli anni in cui dominava il messaggio non mise mai in secondo piano la musica, pur avendo cose da dire, e che cose». È ancora il sito a parlare, descrivendo un artista a cui l’etichetta (spesso affibiatagli) di cantautore gli va stretta, come pure quella di bluesman all’italiana.
Il curriculum parla chiaro: soprattutto all’estero – assai più di colleghi popolari al grosso pubblico come Zucchero, Eros Ramazzotti, Andrea Bocelli, Laura Pausini – Pino Daniele è noti nei fondamentali contesti del jazz e del blues – l’Apollo di New York, il Crossroad Guitar Festival di Chicago, Umbria Jazz, l’Olympia di Parigi, il Festival di Varadero a Cuba, eccetera – dove suona in differenti occasioni suscitando unanimi consensi, anche perché, tra i musicisti da lui ospitati su disco o dal vivo, figurano non pochi importanti jazzisti; e bisogna citarli tutti, in ordine cronologico di apparizione: da Alphonso Johnson a Wayne Shorter, da Nanà Vasconcelos a Don Cherry, da Gato Barbieri a Bob Berg, da Steve Gadd a Mino Cinelu, da Mick Goodrick a Ralph Towner, da Victor Bailey a Mike Manieri, da Chick Corea a Pat Matheny, da Peter Erskine a Rachel Z, da Alain Pasqua a Dave Carpenter, da Chiara Civello ad Al di Meola. Certo, la loro presenza talvolta si limita a un solo brano e forse quantitativamente limitata rispetto alla mole di musicisti pop italiani (cantanti, strumentisti, gruppi, arrangiatori), qualcuno con trascorsi genuinamente jazzistici (come Tullio De Piscopo, Tony Esposito, Larry Nocella, Bruno de Filippi).
Forse suo malgrado Pino Daniele diventa quasi subito una pop star, in un ruolo verso cui nutre un’idea di amore/odio, come trapela da un’intervista dell’estate 2014, dove tra le righe si possono leggere i segni del jazzista, di cui si parla all’inizio: «Quando ho iniziato io, la musica aveva una funzione sociale mentre oggi ne ha un’altra, soprattutto fra i giovani. Io suono la chitarra, sono un ricercatore, non mi piace il suono elettronico, cerco di suonare nel miglior modo possibile per trovare una soluzione alle canzoni e alla musica. Non sono molto attento al mercato. Prima volevo sempre cercare il pezzo di successo e non vivevo più. Lo dico seriamente: è pericoloso fare il mestiere del cantante. Ora ho smesso di voler stare al centro dell’attenzione, voglio solo suonà».
Certo che la morte di Pino Daniele sorprende un po’ tutti: la notte di San Silvestro di soli cinque giorni prima, vede, in televisione, per festeggiare il Capodanno, a Courmayeur, un musicista in ottima forma sotto il profilo artistico; si augura, serenamente, nell’intervista poco prima dell’esibizione, un buon 2015 che per lui avrebbe significato un nuovo album, dopo la trionfale tournée di sei mesi fa, quando di nuovo, per intero, ripropone Nero a metà, un long playing di trentacinque prima, ma che da tempo è da annoverare tra i “classici moderni” della musica popolare italiana per il delicato equilibrio fra le componenti sopracitate.
Tra i primi ad accorrere all’ospedale romano, ove è spirato dopo un viaggio disperato in ambulanza di oltre due ore, il fraterno amico James Senese, che tra l’altro è il primo a intuirne le virtù artistico-musicali e a lanciarlo, sulla scena nazionale, quattro decenni or sono, dichiara che non nascerà più un altro Pino Daniele, nel senso che la figura artistico-musicale dell’eterno ragazzone napoletano resta unica e inimitabile. Pino Daniele va insomma visto da un lato quale analista delle grandi tradizioni partenopee, dall’altro come un profondo innovatore della scena vernacolare: lui con pochi altri (Eugenio Bennato, la Nuova Compagnia di Canto Popolare, Tullio De Piscopo, Tony Esposito, Teresa De Sio, Alan Sorrenti, Mario Schiano e prima ancora Renato Carosone), diventa addirittura da campano a internazionalista. I critici inglesi e americani inserirebbero forse Pino Daniele nell’alveo della world music o dell’ethno-jazz, perché lo stile da lui inventato è sicuramente una mirabilissima sintesi tra vecchie e giovani sonorità, nell’ambito di due diversi importanti patrimoni, mediterraneo e afroamericano, ovvero melodia e ritmo, canzone d’autore e black music.
Pino Daniele fin dagli esordi – non a caso all’interno di un gruppo jazz come Napoli Centrale (di cui appunto Senese, ex Showmen, è il leader ai sassofoni – mostra originalissime trame inventive via via a livello voce, chitarra, scrittura e improvvisazione; nonostante la figura corporea massiccia, il timbro vocale risulta morbido, sottile, delicato quasi in falsetto, alla stregua di un crooner; alla sei corde (sia classica sia elettrica) esprime senza dubbio una personale cultura jazz, non senza echi di folk, rock e blues; a livello compositivo, tanto in dialetto quanto nella lingua italiana, in grado di reinventare la forma-canzone, arrivando a firmare e eseguire decine e decine di pop song raffinate, da cui traspare sempre – trattando argomenti poetici anche molto diversi tra loro dall’amore alla politica – un’attitudine malinconica, con un fondo di tristezza, che è apparentabile al blues feeling dei neri statunitensi.
A livello professionale Pino Daniele verrà ricordato nei panni di un “attore” disponibilissimo alle collaborazioni più svariate, riuscendo su disco e dal vivo ad esempio duettare con quasi tutti i massimi esponenti della musica leggera italiana, senza mai perdere la propria identità, anzi giungendo persino a conquistare una fama internazionale che del resto lo ha condotto a partnership favolose: la più recente con Eric Clapton. Lascia al momento – ma gli inediti saranno di certo moltissimi – ben 31 album ufficiali di cui 23 in studio, 6 dal vivo, 2 raccolte e 1 colonna sonora; e fra di essi è difficile scegliere il migliore perché tutti i dischi LP o CD – registrati dal 1977 al 2012 – sono di ottimo livello: Bella ‘mbriana (1982), Sciò live (1984), Bonne soirèe (1987), Un uomo in blues (1991), Come un gelato all’equatore (1999), Medina (2001) e Il mio nome è Pino Daniele e vivo qui (2007) forse non sono i lavori migliori in assoluto, ma sicuramente risultano quelli dove la presenza e il contributi di tutti i jazzmen stranieri sopraindicati restano fruttuosi e garantiti.