Piero Bittolo Bon Jümp The Shark – Iuvenes Doom Sumus

Piero Bittolo Bon Jümp The Shark - Iuvenes Doom Sumus

El Gallo Rojo Records – 314-63 – 2014




Piero Bittolo Bon: sax alto, clarinetto alto, composizioni

Gerhard Gschlössl: trombone, sousaphone

Domenico Caliri: chitarra elettrica, chitarra acustica a 12 corde

Pasquale Mirra: vibrafono

Danilo Gallo: basso acustico, basso elettrico

Federico Scettri: batteria





Jump the shark è uno dei gruppi più interessanti venuti fuori negli ultimi anni. Dopo Sugoi Senta! Gatta!! e Ohmlaut, i sei afferenti al collettivo El Gallo Rojo pubblicano adesso il loro terzo disco, con un titolo metà in latino e metà in inglese, traducibile più o meno così: «Siamo giovani sfortunati» oppure «Siamo giovani dannati». Bittolo Bon è il leader e la mente del sestetto. A lui si devono le dieci composizioni originali, eccentriche, in cui è fin troppo facile trovare agganci con il mondo espressivo di Henry Threadgill o con quello di Steve Lehman, pluripremiato nei vari referendum del 2014. Il cd contiene una musica organizzata nei particolari, dove gli spazi per l’improvvisazione si incuneano all’interno di un tessuto a maglie strette, ma flessibili. Si passa dalla parte scritta a quella improvvisata, cioè, senza salti apprezzabili. In primo piano si inquadra il dialogo polifonico fra ance ed ottoni. Le voci di Bittolo Bon, all’alto e al clarinetto contralto e di Gschlossl a trombone e sousaphone si rincorrono, si intersecano, si incontrano, riuscendo a far scaturire un tema conduttore o l’idea dello stesso, su cui poi i due strumentisti lavorano per allontanarsi, per ritornare all’input iniziale o per procedere oltre, verso altri climi, tirandosi dietro l’intera formazione.


In secondo piano, ma spesso scalano in avanti, Caliri e Mirra costruiscono con chitarra e vibrafono una armonizzazione obliqua o diretta, tenendosi in serbo la possibilità di uscire in assoli tanto compressi da quello che succede intorno, quanto valorosi. Gallo e Scettri a basso e batteria, invece, danno vita ad un accompagnamento piuttosto regolare, generalmente sui tempi dispari, tipici del prog, o su cadenze funky, rivelandosi un motore ritmico vivo, pulsante e alquanto raffinato.


Tutto funziona per il meglio nell’intero album. Nelle dieci tracce, strutturate su più livelli comunicanti, inoltre, si scopre come alcuni elementi della tradizione di New Orleans, possano fruttuosamente incrociare la scuola di Chicago, la downtown newyorkese e il jazz rock sperimentale. In più il sassofonista guida i jump con interventi trascinanti delle ance, di una coerenza e di una profondità rare. È lui a indicare la rotta e a segnare la strada da percorrere ai partners.


L’intesa fra i sei musicisti, poi, è robusta e consolidata da una lunga consuetudine.


Il brano migliore del disco è A raw pie per l’intreccio magico di clarinetto contralto, trombone e vibrafono, indirizzati apparentemente su tracciati inizialmente divergenti, alla lunga convergenti, in uno scambio complicato e sapiente di sollecitazioni


Iuvenes doom sumus, infine, è il trionfo di un’idea compositiva forte da parte di un artista che conosce benissimo la tradizione e l’avanguardia e ha scelto di schierarsi a favore di un jazz contemporaneo pensato, progettato a monte e lasciato, poi, fluire, a valle, libero ma, allo stesso tempo, attentamente controllato.