Schema Records – SCCD466 – 2013
Alessandro Scala: sax tenore, sax soprano
Nico Menci: pianoforte, Fender Rhodes, wurlitzer
Paolo Ghetti: contrabbasso
Stefano Paolini: batteria
Fabrizio Bosso: tromba
Roberto Rossi: trombone
Alessandro Scala riunisce intorno a dieci brani – nove composti da lui, il decimo, Marcha para Oeste, dal contrabbassista Paolo Ghetti – un combo compatto e spigliato, in grado di mettere in evidenza una solida proprietà del linguaggio jazzistico. Il quartetto si presenta con la ritmica esperta, affiatata da una costante e felice consuetudine, formata da Stefano Paolini e dal già citato Ghetti. Il lavoro al pianoforte, ma anche al wurlitzer e al Fender Rhodes, di Nico Menci rappresenta il giusto legante, utile per offrire la spinta propulsiva ai solisti e per rispondere alle loro sollecitazioni. Il “padrone di casa”, impegnato al tenore e al soprano, conduce con piglio sicuro e coinvolge i due ospiti, Fabrizio Bosso alla tromba e Roberto Rossi al trombone, nella creazione di una front-line di fiati potente, dedita ad esplorare le possibilità dei vari brani.
Se l’aggettivo “stellare” nella storia del jazz rimanda l’appassionato in prima battuta alle esperienze dell’ultimo Coltrane o delle formazioni di Sun Ra, il lavoro di Scala punta senza indugi al jazz mainstream: i riferimenti sono i Jazz Messengers di Art Blakey, Horace Silver e Freddie Hubbard, senza dimenticare la lezione del post-bop degli anni cinquanta e senza trascurare le prime esperienze modali. La sintesi operata dal sassofonista è in undici tracce – con la seconda riproposizione di Dexter Blues, non a caso dedicata al grande sassofonista – dal passo scattante, dalla forte carica energetica, dall’impulso gioioso. Due sole tracce “rallentano” l’incedere del disco, vale a dire Sognare ad occhi aperti e Isola del sole, ma non si può parlare di vere e proprie ballad, visto il tempo metronomico e l’approccio generale. Scala punta decisamente verso dinamiche tirate e realizza un lavoro che procede spedito nei suoi sessantadue minuti senza concedere tregua alla formazione e all’ascoltatore: le pause, i momenti di riflessione sono “sostituiti” dalla varietà espressiva offerta dallo schieramento dei solisti e dalla dimensione ampia del sestetto, dall’alternanza del pianoforte con le tastiere.
Lo sguardo rivolto a un preciso momento della storia del jazz, quindi, per mettere insieme i presupposti di una esplorazione personale: il lavoro di Scala – registrato nel 2012, vale a dire con i piedi ben saldi nel nuovo secolo – tiene conto di quanto i suoi riferimenti hanno prodotto nella storia e come altre esperienze intervenute nei cinque decenni successivi hanno influenzato interpreti e compositori. Le tracce del disco portano nel lettore l’approccio diretto di un musicista naturalmente disposto a riprendere il filo dei grandi maestri del jazz con rispetto e dedizione, senza però essere serioso o ingessato: l’alveo tracciato dalla tradizione, anzi dalle tradizioni, viene percorso con una miscela di riverenza ed estro, con la varietà cui si faceva cenno sopra e senza costringere più del dovuto il passo sulle orme dei predecessori.
E, in questo senso, La chiusura del disco – con la cantabile My sound e la seconda versione di Dexter Blues – rappresenta bene Viaggio Stellare: la velocità e il ritmo non diventano mai frenesia, la melodia e la presenza del blues sono utili a non creare strappi o svolte al buio, l’indole e la disposizione del sassofonista e dei suoi compagni di viaggio rendono il tutto fluido e coerente con le premesse di partenza e con l’idea di poter ancora trovare spazio per la propria interpretazione all’interno di un linguaggio consolidato.
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