ECM Records – ECM 2386 – 2014
David Virelles: pianoforte
Thomas Morgan: contrabbasso
Robert Hurst: contrabbasso
Marcus Gilmore: batteria
Roman Diaz: blankomeko, voce
Nel pieno rispetto della tradizione che ha sempre riservato sorprese piacevoli quando i musicisti arrivano da Cuba, ecco sbocciare nel catalogo ECM il primo lavoro a suo nome del pianista David Virelles, trentadue anni, uscito dal suo paese una decina di anni fa per formarsi musicalmente in Canada e poi a New York. La sua formazione e maturazione con Henry Threadgill e la partecipazione a progetti di Chris Potter, Wadada Leo Smith e Tomasz Stanko non possono che accrescere in molti la curiosità dell’ascolto di questo Mboko.
Dopo un paio di precedenti incisioni con altre etichette, Virelles sceglie, per il suo debutto ECM, una formazione con due contrabbassisti, un batterista ed un percussionista suo connazionale che suona un set molto particolare di tamburi ed altri aggeggi. Ben oltre i dettagli della strumentazione e delle diverse formazioni alternate nell’incisione qui dovrebbe interessare l’ispirazione originale, lo scopo collettivo, la capacità di rappresentare un ensemble al servizio di un suono affascinante, ancestrale, evocativo. Rifacendosi ad antiche forme culturali/spirituali che affondano le loro radici nella profonda Africa nigeriana, Virelles (che definisce questo progetto come musica sacra) riesce magicamente ed attraverso una sapiente combinazione dei vari musicisti (dal duo al quartetto) a costruire un excursus musicale dove sostanzialmente trionfa il ritmo, ma dove la melodia ha i suoi momenti di assoluto splendore, per niente fini a sé stessi e perfettamente incastonati in un percorso sonoro che affascina di traccia in traccia.
La sua personale assoluta bravura consiste nella creazione di composizioni di grande originalità, immerse in un suono naturale e molto peculiare, mai cervellotico, difficilmente accostabile ad altri pianisti suoi predecessori, sempre diverso. E Virelles non si ritaglia automaticamente il ruolo di leader, dando piuttosto ad ogni musicista la possibilità di partecipare al progetto ed assegnando in molti dei dieci brani il ruolo di forza trainante allo splendido lavoro ritmico/percussivo di Marcus Gilmore e Roman Diaz (assolutamente magnifici in un brano come Transmission, dove peraltro il pianoforte viene fuori solo nell’ultimo segmento). Allo stesso tempo i due bassisti fanno da contrappunto con poche escursioni solistiche ma con un gran lavoro di base, dando corposità e spessore alle note del piano. Un disco davvero interessante, a dire il vero molto bello, un lavoro nel quale si sente una ispirazione molto profonda, una maturità musicale non comune anche in artisti molto più esperti dei trentadue anni di questo pianista del quale (ci auguriamo…) risentiremo parlare molto presto.
Ed un disco che conviene ascoltare nella maniera migliore e con la dovuta qualità, per apprezzarne le mille sfaccettature.