Foto: La copertina di Jazz Child. A Portrait Of Sheila Jordan di Ellen Johnson
Otto libri per otto jazzisti
Da alcuni mesi si trovano in libreria alcuni volumi dedicati ai jazzmen Italiani e stranieri: biografie, monografie, autobiografie ad esempio su Franco Cerri, Gianni Basso, Enrico Rava, Giorgio Gaslini, Paolo Fresu, Stefano Bollani da un lato, Charles Mingus, James Brown, Charlie Parker, Lee Konitz, Django Reinhardt, Wynton Marsalis dall’altro; in questi casi – già abbondantemente discussi su Jazz Convention da differenti recensori – i testi omaggiano tra gli americani i grandi maestri legati musicalmente a un passato onorevolissimo, mentre i “nostri” sono legati a un presente ancora fresco e seducente. Altre novità oggi presentano quattro gloriosi solisti, “anziani” (forse meglio dire “storici”) ma attivi e giovani nello spirito e uno, ahinoi, scomparso in giovane età in pieno fulgore creativo: e per quest’ultimo, Massimo Urbani (Arcana) di Carola Di Scipio, la vicenda umana e artistica è ri-composta attraverso un puzzle di testimonianze di parenti, amici, colleghi, sistemate in modo da seguire un percorso logico nel ricordare la tormentata esistenza del sax tenore, il quale peccava forse proprio di logica, nell’irrazionalità con cui, fra alcool ed eroina, ha buttato via un talento geniale. Assai meno esagerata, anzi tranquilla e razionale la lunga escalation di Claudio Fasoli (Quaderno di Siena Jazz a cura di Francesco Martinelli) che si racconta in una lunga intervista commentata, ripercorrendo gli esordi con Buratti e Manusardi, il rock-jazz del Perigeo, il viaggio solistico alla testa di svariate formazioni anche internazionali all’insegna di un post-free sempre molto personale.
Tra i due estremi, in mezzo, si può invece collocare il trombonista Marcello Rosa di Amari accordi (Arcana), che si rivela arguto scrittore nel parlare di se stesso, zigzagando tra i ricordi di oltre mezzo secolo di intensa attività, spezzata, per un lustro, da un incidente d’auto: un’autobiografia senza peli sulla lingua, ironica, scanzonata, diretta, in grado di creare scompiglio in un sistema invecchiato, viscido e corrotto. In fondo alle stesse conclusioni giunge anche l’autobiografico Gaetano Liguori in Confesso che ho suonato (Skira) lungo “diario”, assai ben scritto, sulla propria esistenza artistico-culturale che si caratterizza non solo come pianista free ma anzitutto quale impegno politico nella sinistra extraparlamentare degli anni Settanta e in seguito nell’attenzione precipua ai temi ecologici, terzomondisti, persino religiosi in un dialogo aperto con la fede cristiana. Dino Piana. Oltre quel campanile (Piazza) è invece la monografia che il giornlaista astigiano Armando Brignolo dedicata al proprio conterraneo, quasi coetaneo, Dino Piana, ottantacinque trombonista, che ha vissuto le prime importanti stagioni del jazz moderno tricolore suonando nel Basso Valdambrini Sextet: immagini pubbliche e private si alternano in quest’album di ricordi, dove emerge la figura di un ottimo solista, da serpe fautore di un mainstream boppeggiante, lonano però dai clamorosi del jazz set, benché richiesto da leader anche stranieri.
E proprio sugli stranieri troviamo l’ennesima ma aggiornatissima biografia su the Voice a opera di Francesco Mieli con Frank Sinatra semplicemente il migliore (Odoya): inevitabile, data la “vita spericolata”, che l’autore non si soffermi nel considerare l’uomo e il latin lover, protagonista a Hollywood e a Las Vegas, nel cinema e negli affari, fra avventure galanti e mogli ufficiali: ma gli aspetti privati e talvolta ambigui sono però stemperati nell’analisi dell’attività musicale, poiché il contribuito del cantante al jazz e al song americano resta comunque indiscutibile. Indiscutibile è all’opposto la vita esemplare di Sheila Jordan raccontata in Jazz Child. A Portrait Of Sheila Jordan (Rowan & Littlefield) pubblicata in inglese (e non ancora tradotto) dalla cantante e didatta Ellen Johnson, la quale si addentra in un’analisi minuziosa, non senza citare in abbondanza stralci di ricordi e interviste di una vocalist fondamentale nel passaggio verso la contemporaneità. C’è infine un’autobiografia molto interessante per approfondire, non solo in sociologia e psicanalisi ma anche nel lavoro musicale, le cosiddette dinamiche di gruppo: si tratta di No Beethoven. La mia vita dentro e fuori i Weather Report (Arcana) del batterista Peter Erskine che ricorda soprattutto quando fece parte, tra il 1978 e il 1986, con cinque album, del maggior gruppo fusion in quella che resta forse la migliore formazione, l’unica in quartetto, con i cofondatori Wayne Shorter e Joe Zawinul più Jaco Pastorius. Ma come racconta egli stesso, c’è un prima e un dopo da Stan Kenton a Joni Mitchell dagli Steps Ahead all’attività solistica in oltre 400 album (vero e proprio record per un jazzman). Forse oggigiorno, per ulteriori conoscenze, biografie e monografie sono forse lo strumento migliore nella storia del jazz e quindi questi otto libri per otto jazzisti fa ben sperare anche per un’editoria sempre più attratta dall’arte del jazz.