Francesco Branciamore – Remembering B.E.: A Tribute to Bill Evans

Francesco Branciamore - Remembering B.E.: A Tribute to Bill Evans

Caligola Records – Caligola 2184 – 2014




Francesco Branciamore: composizione, arrangiamento, direzione

Marina Gallo: pianoforte

Carmelo Aglieco: flauto

Gaetano Cristofaro: clarinetto

Christian Bianca: violino

Susy Kimbell: violoncello

Giuseppe Guarrella: contrabbasso






Attore piuttosto personale della percussione delle sue incombenze, avvezzo (per artistica curiosità e necessità di mestiere) a migrazioni e incroci, spesso trascendendo le cesure di genere, ma elettivamente aperto a fronti avant-garde, il batterista siracusano Francesco Branciamore si dispone ora ad una messa in discussione non soltanto dei suoi personali percorsi, operando o quanto meno progettando una revisione rispetto ai tributi finora dedicati all’arte di Bill Evans, concentrandosi sui possibili influssi conferiti dai grandi maestri del pianoforte classico, allestendo e dirigendo per l’occasione un sestetto d’impostazione classico-cameristica da impiegare senza spazi per l’improvvisazione, estendendo la scrittura a composizioni non a firma di Evans ma comunque amati e praticati dall’originale pianista.


Pervasiva, per vari versi dominante si palesa nell’ispirazione e nelle ricorrenze formali quella letteratura, sonora ma non soltanto, e più in generale quel movimento ideativo che ha attraversato e innervato in composito XX secolo, fertile humus e stabile patrimonio di molti spiriti europei, sempre più attivamente studiata, metabolizzata e praticata particolarmente da certe punte di lancia nordamericane dell’ultima generazione (ma non soltanto). Per contro, le atmosfere d’insieme sono increspate, ma più propriamente abitate da un “sentire jazz” contemporaneo ma anche e ante-litteram, se così possiamo intendere le prime esplorazioni ritmico-armoniche post-classiciste del proto-jazz (alla Scott Joplin, dintorni e derivazioni) ma già gli sconvolgenti exploit profetici dell’Opus 111 di Ludwig van Beethoven.


Cosicché le soluzioni del sestetto non stravolgono, ma conferiscono alternativa identità alle sovente riconoscibili tunes, impregnate da chiaroscuralità impressionista e levantine setosità (assai apparentabili ai filo-orientalismi primo-novecenteschi), sospinte da bilanciamento instabile che non denuncia unicamente le profonde e sensibili radici rag e blues, e il combo così procede disciplinato ma con costanti guizzi espressivi e ricorrenti spiazzamenti espositivi, abili a tener vivi attenzione e ascolto.


Operando già dall’intro (a propria firma) un distacco apparente da stilemi ed impeti tipologici delle più condivisa forme jazz, nei fatti il leader ne recupera la primigenia materia melodica, conferendo trasparenze e volumi aerei alle imbastiture ritmiche, procedendo con gradualità nell’edificazione delle stanze melodiche.


L’identità, ovviamente primaria e responsabilizzata, del pianoforte scansa il protagonismo a vantaggio di una cangiante coralità che non disconosce un, sia pur assai controllato, peculiare e scorrevole interplay.


Ad ulteriore integrazione (estetica e di metodo) di una carriera ultratrentennale e alle soglie della ventina d’incisioni, Branciamore qui rinuncia dichiaratamente a cimentarsi con il suo collettivo in termini imitativi verso l’originale sentire del tormentato e insieme innovativo caposcuola, del cui làscito e delle cui scie s’imbevono, ne elaborano, e in via personale citano, un ampio panorama d’umori e costruzioni cantabili, che con opportuno senso d’alternanza tratteggiano il gioco di tensioni e l’interfaccia tra penombre e temperate solarità, dalle movenze più animate dalla rollinsiana Oleo, le stemperate solennità di Peace Piece, le dinamizzazioni sensibili e le squillanti assertività conferite a classici quali rispettivamente la crepuscolare Time remembered e la danzante Waltz for Debby, giungendo, nell’Epilogue a tema evansiano, in via dedicataria alla contemplazione della melodia fattasi Luce.