Miller, Turner, Ballard: tris d’assi all’Auditorium

Foto: Luca Labrini










Miller, Turner, Ballard: tris d’assi all’Auditorium

Roma, Parco della Musica – 17-18-31.3.2015


Torna il grande jazz nella programmazione dell’Auditorium di Roma con un mese di marzo ricco di appuntamenti succulenti in cui spiccano tre bei progetti di altrettanti artisti di caratura internazionale. A metà mese sono due concerti ravvicinati a catturare l’attenzione, con i live del sassofonista Mark Turner e del batterista Jeff Ballard.


Turner si presenta a capo di un classico quartetto piano-less di stampo free che ricorda le atmosfere ricreate dalle formazioni anni ’80 di Max Roach, con un approccio tuttavia rivisitato e inevitabilmente più moderno. In questa tournée, la tromba di Ambrose Akinmusire sostituisce quella di Avishai Cohen, presente invece nell’ultimo album del sassofonista uscito per l’ECM, con la ben collaudata ritmica, formata da Joe Martin al contrabbasso e Marcus Gilmore alla batteria, presente in ambedue le situazioni. I quattro danno vita ad un concerto volutamente tosto che richiede attenzione e sforzo anche tra il pubblico: i temi, unico momento in cui i due fiati suonano insieme, appaiono infatti articolati e mai facili, con i brani che si sviluppano secondo una struttura abbastanza rigida in cui i due solisti si alternano in lunghi monologhi su chorus non prestabiliti. Il giovane Akinmusire sembra l’alter ego ideale di Turner, sia per timbro che per linguaggio, facendo risultare i brani ancora migliori rispetto a quelli racchiusi su disco: i due, sempre rigidi e seriosi, si piacciono e si rispettano non calpestandosi mai i piedi, e sfruttano appieno la maggiore libertà di movimento che offre la mancanza di uno strumento armonico, in un lavoro d’improvvisazione che richiede la massima concentrazione. Il quartetto funziona però davvero bene grazie alle qualità, non soltanto tecniche, dei musicisti e un interplay finissimo, fondamentale in un contesto tale. Di rilievo appare infatti una sezione ritmica sempre varia, elemento che diviene fondamentale nei lunghi monologhi in trio dei due frontman. E così, senza forzature né colpi ad effetto, la musica ti Turner scorre via bene in un raffinato mix di tradizione e avanguardia che appaga giustamente il soddisfatto pubblico presente, in una performance tra le migliori sentite negli ultimi tempi.


Nonostante Jeff Ballard e lo stesso Turner abbiano in passato suonato assieme in validi progetti ed esibizioni dal vivo, il cammino del batterista californiano come leader ha preso ben presto strade diverse, strizzando spesso l’occhio all’elettronica. Libero da tournée promozionali, Ballard ha chiamato con sé un trio di musicisti, nonché amici, con cui dividere il palco in un progetto chiamato Fairgrounds dove nulla è fisso o precostituito, ma tutto è in divenire di volta in volta. Un’idea stimolante raccolta con entusiasmo dal pianista Kevin Hays, dal chitarrista africano Lionel Loueke e dal bassista Reid Anderson, qui però impegnato nell’uso di effetti elettronici. Come spesso accade nelle formazioni di Ballard è il pianista ad avere un ruolo centrale, e la scelta di puntare sul talento di Hays sembra essere quella vincente: è difatti lui, con un tocco leggero ma decisivo, a dare forma e sostanza ai brani in un crescendo di emozioni e colori davvero notevole. Decisivo quanto discreto anche l’apporto del computer manipolato sapientemente da Anderson, bravo nello scegliere con garbo effetti risolutori che quasi mai sfociano nel rumorismo, mentre tocca a Loueke il lavoro sporco di far quadrare il tutto, costretto spesso a fare le veci del basso, ben più brillante invece nei momenti più blues in cui lo si può ammirare anche nelle vesti di cantante. Ballard dal canto suo lascia liberi i suoi compagni limitandosi a rafforzare con le pelli le varie idee che via via vengono fuori dai virtuosismi e dalle varie atmosfere che vengono raccontate con maestria dai suoi colleghi, in un ambiente dove nulla appare scritto. Tuttavia proprio l’estemporaneità, inizialmente punto di forza di questo concerto, si rivelerà alla fine anche quello più debole in un’approssimazione che piace, ma che lascia l’idea di un qualcosa ancora di incompiuto,ma che non stenterà a migliorare data dopo data.


Diametralmente opposto l’approccio di Marcus Miller che torna ad esibirsi dal vivo quest’anno dopo un 2014 speso a comporre i brani del suo ultimo disco, Afrodeezia, ghiotto pretesto per poterlo rivivere live sui palchi di mezzo mondo. Non poteva di certo mancare la tappa romana che lo ripaga come sempre con un sold out già in prevendita. Qui ogni dettaglio è curato nei minimi particolari, con il leader che controlla e coordina ogni singola mossa della sua collaudata e strepitosa band. I sei riprendono, anche nella sequenza, i brani che compongono il disco in uscita in questi giorni, intraprendendo un viaggio musicale intorno al mondo: con le radici ben salde a New York, Miller e soci partono dai ritmi dell’Africa Occidentale per spostarsi verso i climi festosi del Brasile, passando per i temi Latin dei caraibi fino a Detroit, città della tanto amata Motown, con una rivisitazione di Papa Was A Rolling Stones. Nonostante i temi dei brani e lo sviluppo degli stessi non presentino grosse novità rispetto alle esibizioni passate, Miller diverte e riesce sempre ad incantare per gusto e passione, con un groove sempre incantevole farcito di funk che rende ogni passaggio comunque ballabile. Completato da una formazione di giovani e brillanti musicisti che lo pone anche come uno scopritore di talenti di primo ordine, il bassista vince di nuovo la sua sfida dando vita ad uno show impeccabile sotto ogni aspetto anche quando, richiamato a gran voce per i bis, si concede qualche esercizio di stile, mai comunque fine a se stesso, per la gioia dei fans in delirio, intenti ad immortalare fin sotto il palco un vero mito della musica nera moderna.