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Slideshow. Marco Castelli.
Jazz Convention: Marco, cos’è anzitutto, per te, Porti di mare?
Marco Castelli: Ti rispondo a questa domanda con una parte delle le note di copertina che per la prima volta ho scelto di scrivere personalmente in un mio disco: ho avuto la fortuna di suonare in più di 40 paesi tra Asia, Africa, Americhe e naturalmente Europa. Dai viaggi si torna sempre a casa con degli odori o delle immagini o comunque una memoria degli “umori” dei luoghi e, per quel che riguarda la musica in particolare, dai tour si torna spesso, se non già con delle nuove composizioni, comunque con degli appunti o delle idee da sviluppare poi tra le mura di casa; non sono necessariamente musicalmente legate alle tradizioni dei luoghi in cui si è stati, ma sono senz’altro stimolate dal viaggiare che comporta una relazione con spazi e atmosfere diverse da quelle abituali. Porti di Mare nasce così; da appunti raccolti nel percorso di questi itinerari e da temi musicali provenienti o suggeriti dalla tradizione di questi paesi.
JC: Ascoltando, ho avvertito, oltre la musica, quasi il senso del racconto, di uno svolgimento letterario: è giusto?
MC: Mi fa molto piacere quello che dici, l’idea che ho inseguito progettando questo disco era proprio quella di un percorso che intrecciasse più sonorità diverse in un unico racconto, la storia di un viaggio che attraversando continenti diversi avesse comunque una comune trama narrativa, ed è per questo che ho voluto fornire all’ascoltatore alcuni indicazioni proprio sul percorso che mi a portato a realizzare questa produzione, una specie di manuale d’uso…
JC: Quanto ti ha influenzato, la tua città, Venezia?
MC: Non lo so, non credo abbia un peso rilevante nella mia produzione artistica. È un luogo di grande bellezza, con una storia enorme, ma con un presente problematico: comunque è il porto di partenza del mio viaggio.
JC: Il disco presenta un jazz anche molto versatile: quali sono le tue fonti ispirative per questo lavoro?
MC: Porti di Mare, come dicevo, nasce innanzitutto dall’aver ‘catturato’ delle sonorità prese da varie musiche del mondo che in qualche modo hanno ispirato/stimolato sia le composizioni scritte per questo disco, che suggerito quelle degli altri autori che ho scelto. L’idea fin dai primi passi dell’organizzazione del lavoro è stata quella di connotare in modo molto definito le ritmiche dei brani dal second line di New Orleans, alla polka, dallo zamba all’afro, dal bolero al reggae, sviluppando il tutto con la presenza di due batterie, cioè con un tessuto ritmico molto intrecciato su cui poi abbiamo costruito gli arrangiamenti, riuscendo credo a dare nel contempo versatilità, originalità in una narrazione coerente. Mi sto forse facendo i complimenti da solo?
JC: Ma c’è qualche contributo speciale a Porti di mare?
MC: Fondamentale è stato l’apporto dei musicisti che hanno partecipato al disco: Mauro Beggio e Andrea Ruggeri alle batterie, che con bravura e sapienza hanno saputo gestire la presenza del doppio strumento, Edu Hebling al basso, che ha contribuito anche all’organizzazione degli arrangiamenti e Alfonso Santimone al pianoforte, che ha saputo interpretare il progetto in modo secondo me magistrale.
JC: Ma quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla tua musica in generale?
MC: Mi è difficile rispondere a questa domanda in modo preciso, gli elementi in gioco sono molteplici perché la mia attività non è legata solo al jazz e/o all’attività strettamente concertistica, lavoro da sempre in parallelo con altre discipline come la danza o il teatro, cioè le arti performative in genere, dirigo un orchestra a Trieste che si chiama BandOrkestra, ho un progetto per sax solo ed elettronica e vari altri. In sostanza ‘navigo’ da sempre in mondi diversi dove la funzione del musicista e del produttore si intersecano e si scambiano continuamente ruoli e In ognuno di questi si sviiluppano concetti e idee diversi, certo vengono dalla stessa anima, ma che attiva aspetti che possono essere anche molto lontani tra loro.
JC: Facciamo un passo indietro, chi è Marco Castelli?
MC: Sono sempre stato un musicista piuttosto onnivoro, come in parte ti dicevo nella domanda precedente, mi sono sempre piaciute cose diverse tra loro e credo che questo si senta nella mia musica. Ho da sempre avuto la tendenza a sviluppare progetti in ambiti spesso lontani tra loro sia in termini di genere che di contesto. Per esempio per me è risultato fondamentale e di grande stimolo dover creare musica per contesti in cui l’aspetto musicale non è “davanti” ma affiancato ad altri mondi. Nel realizzare musiche per spettacoli di performance art, devi tener conto di altri parametri in cui l’importante non è solamente l’aspetto strettamente compositivo, ma anche la regia generale che si deve dare alla propria scrittura.
JC: Certo qui intervengono non solo le affinità ma anche le divergenze frai differenti linguaggi espressivi…
MC: Insomma sono modalità diverse dall’organizzazione di un quartetto jazz, utili ad un musicista per capire che trovare il “suono” è fondamentale in ogni contesto ed avere la capacità di trovare una sorta di “rigore flessibile” può dare alla tua capacità compositiva ed esecutiva brillantezza ed efficacia. In sostanza tutte queste esperienze diverse dal concerto, mi hanno reso credo più “libero”, meno vincolato alle forme, meno sordo ad altri sistemi e meno legato ad un singolo genere musicale specifico.
JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?
MC: Il primo ricordo della musica di quando ero molto piccolo è di mia madre che ascoltava su 78 giri Prélude à l’Après-midi d’un faune di Debussy e Un Americano a Parigi.
JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista?
MC: Non parlerei di motivo, è una passione che si manifesta da sola, non sono stato spinto da qualcuno o da eventi particolari, è una cosa che cresce dentro e man mano si manifesta in modo più evidente, come piacere e necessità insieme.
JC: E in particolare un jazzman e un sassofonista?
MC: Ci sono stati tre dischi fondamentali, che ho consumato sul giradischi e che mi hanno fatto appassionare al jazz da ragazzino: Chapter two Hasta Siempre di Gato Barbieri, Expression di Coltrane e Montreux One di Sheep.
JC: Ma cos’è per te il jazz?
MC: Un enorme mare aperto dove ognuno naviga con la barca che preferisce.
JC: E tra i dischi jazz che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?
MC: Non porterei solo dischi di jazz su un isola deserta, pensa una vita senza Bach o Stravinskij o Skrjabin o senza Steve Wonder o Bob Marley o i Police, detto questo non so mai come rispondere a questa domanda, un pò le liste non sono mai state il mio forte, è troppo difficile scegliere cosa abbandonare, e poi perchè ci sono dischi da ascoltare sempre ma anche dischi senza i quali mancherebbe qualcosa anche se nell’isola non li ascolterei tutti i giorni. Ti cito qualche titolo senza un ordine preciso: Ben Webster meets Oscar Peterson, Expression e A Love Supreme di Coltrane, Belonging di Jarret, Kind of Blue di Davis, Pithecanthropus Erectus di Mingus, Out to Lunch di Dolphy, Saxophone Colossus di Rollins, Atlantis di Shorter… Mi fermo qua ma ce ne sarebbero molti altri e naturalmente anche di più recenti.
JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?
MC: È una domanda difficile, dovrei fare una lunga lista, non ho avuto dei maestri che posso citare come determinanti per la mia vita e per la musica, ho avuto tante passioni, come quando in letteratura ti innamori di un autore e ne leggi tutti i libri o in musica ti entusiasmi per un compositore e ne ascolti e riascolti e ne analizzi le composizioni. Credo sia utile essere aperti, curiosi, quasi affamati…
JC: E i tenoristi (o saxmen in genere) che ti hanno maggiormente influenzato?
MC: Ho cominciato suonando per alcuni anni solo il soprano, sicuramente all’inizio Shorter è stato il suono che maggiormente avevo nelle orecchie.
JC: Come vedi la situazione della musica e più in generale della cultura oggi in Italia?
MC: La vedo molto male, se è vero che i tagli drastici alla cultura hanno ridotto di molto la attività culturali in genere, c’è un male peggiore che non si cura con una legge o con un ritorno ai finanziamenti, è una decadenza più generale, che si respira nell’aria, la mancanza di curiosità, di interesse per quello che non si conosce o che è nuovo o diverso, lo sa bene il mondo del jazz il cui pubblico ha un’età media non giovane ed è molto molto meno di anni fa. Come già detto, ho avuto la fortuna di suonare molto spesso all’estero negli ultimi anni, sia che sia stato nel Nord Europa o in Senegal o in Messico o in Thailandia, ho sempre trovato un pubblico più attento, più curioso e più giovane. Mi spiace dire così ed unirmi agli italiani che parlano male dell’Italia, spero che presto uno scossone ci proietti verso tempi migliori.
JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?
MC: In questi giorni sto finendo di scrivere le musiche per uno spettacolo di Danza Verticale che farò con la Compagnia Il Posto per l’inaugurazione dell’EXPO a Milano il 2 e 3 maggio. Altri progetti su cui sto lavorando sono un nuovo CD con la BandOrkestra e un disco sulla canzone francese.