ECM Records – ECM 2418 – 2015
Julia Hülsmann: pianoforte
Theo Bleckmann: voce
Tom Arthurs: tromba, flicorno
Marc Muellbauer: contrabbasso
Heinrich Kobberling: batteria
Personaggio di grande interesse, quello di Kurt Weill. Adolph Hitler lo citava espressamente come modello di artista degenerato e lo incluse insieme a nomi come quelli di Thomas Mann e Albert Einstein fra gli esempi maggiori della corruzione culturale europea. In effetti Weill fu fra i primi, nel secolo scorso a praticare quella ibridazione di generi e linguaggi musicali che oggi è la cifra estetica principale dell’arte dei suoni contemporanea. Forse per lo stesso motivo Arnold Shoenberg diceva che quella di Weill era l’unica musica nella quale non riusciva a trovare niente d’interessante. Weill teorizzò apertamente la necessità dell’immissione di “sangue negro” nella musica occidentale.
Le persecuzioni naziste lo portarono oltre oceano, dove divenne rapidamente uno dei più apprezzati compositori di Broadway. Date queste promesse era del tutto normale che l’uscita di un disco ECM dedicato alla musica di questo grande del ?900 fosse destinata a suscitare curiosità e attese. Soprattutto perché si tratta di una rilettura jazzistica del maestro di Dessau.
Il risultato, purtroppo, anche dopo un prolungato ascolto, è abbastanza deludente.
Gli arrangiamenti di Julia Hülsmann e dei suoi musicisti, immergono la musica di Weill nell’atmosfera di un jazz mainstream manieristico, patinato e algido, raffinato e un po’ insipido. Già dal primo brano, il celebre Moritat dell’Opera da tre soldi, si capisce dove il progetto andrà a parare. La musica popolaresca e il testo gaglioffo si avvitano in una lunga sequenza meditativa in cui il brano pare perdere le sue caratteristiche più autentiche. Non è poco poiché la pianista tedesca ha parlato in alcune interviste dell’importanza che i testi hanno nella sua rilettura dell’autore di Speak low. Non è un caso che tutti i brani recano firme d’illustri autori di versi (Maxwell Anderson, Langston Hughes, Ira Gershwin).
Il problema è che quest’approccio dura per tutte le dodici tracce. Il quartetto suona in maniera molto elegante (notevole il lavoro di Tom Arthurs) e Theo Bleckmann canta anche molto bene, anche se talora risulta un po’ monocorde. Tuttavia la loro interpretazione dei songs di Weill è del tutto priva di mordente, anche se ricca di suggestioni e di sfumature. Se qualche lettore fosse interessato ad approfondire questi spunti gli consigliamo di cercare su YouTube un’edizione di una canzone di Weill (Lonely House) realizzata nel 1994 da Betty Carter con Geri Allen per un film sul compositore. La grande vocalist scava ogni singola parola del testo (del grande poeta nero Langston Hugues) mettendone in evidenza ogni piccola sfumatura emotiva. L’ascoltatore curioso potrebbe anche ascoltare la cover che Lou Reed fece, nello stesso anno (per lo stesso film) di September Song e capire come Weill sia un autore meticcio e variegato, inadatto a essere riletto con una sola chiave stilistica.
Nel disco figurano anche brani firmati dalla leader su testi di Walt Withman (fra cui quello che dà il titolo al disco) Anche qui il risultato non cambia. L’eleganza dell’esecuzione non riesce a trasmettere tensione emotiva all’ascoltatore. Il disco si trascina quindi in una sorta di deludente, malinconico algore.
Al jazzofilo interessato a una lettura “altra” di Weill resta il film citato (September Song di Larry Weinstein) o un disco del 1985 Lost in the stars, una compilation in cui appaiono John Zorn, Charlie Haden, Carla Bley, Phil Woods, Henry Threadgill oltre a Tom Waits, Lou Reed, Sting e tanti altri.