Il Mondo che verrà, il nuovo disco di Raffaello Pareti

Foto: la copertina del disco










Il Mondo che verrà, il nuovo disco di Raffaello Pareti.


Il Mondo che verrà è il nuovo progetto discografico di Raffaello Pareti. Un disco realizzato in quartetto con Walter Paoli, Mauro Ottolini e Francesco Bearzatti. In questo lavoro, che si pone in continuità con il precedente intitolato The Roar at the Door, il contrabbassista toscano sintetizza la sua idea di jazz, di un mondo musicale aperto, in progress, sempre attento agli stimoli e ai cambiamenti che provengono dall’esterno, dove non è ammessa alcuna rigidità espressiva ma solo sensibilità e apertura mentale. Come ogni disco di Raffaello Pareti, anche questo ha un consistente valore qualitativo e si fa apprezzare ascolto dopo ascolto.



Jazz Convention: Raffaello Pareti, tu sei un contrabbassista, compositore e arrangiatore, con alle spalle importanti dischi. Con Il Mondo che verrà a che punto siamo con la produzione discografica da leader?


Raffaello Pareti: Questo è il quarto disco a mio nome. Mi verrebbe da dire solo il quarto perché, anche se ho scritto musica fin da quando ho cominciato a studiarla, la necessità di avere un gruppo con cui suonare le mie composizioni si è fatta sentire “da grande”, quando ho capito che la mia musica non poteva trovare spazio nei progetti degli altri. Così assumere la responsabilità della leadership è stata una necessità. È noto che per essere bravi leader non è indispensabile scrivere brani originali; ma molti leader scrivono perché hanno un gruppo. Io ho voluto un gruppo perché scrivevo.



JC: “Raffaello Pareti The Roar at the Door”: che significato ha tale intestazione? Vuol dire che è in continuità con il tuo disco precedente?


RP: Si, assolutamente. La continuità sta nel rapporto che ho con i musicisti che fanno parte di questo gruppo. Essi sono per me fonte inesauribile d’ispirazione e, cosa non comune, sempre molto creativi e collaboranti. The Roar at the Door è un quartetto di musicisti che insieme suonano, sperimentano, si divertono, sul palco come nella vita. Armonizzare le personalità di un gruppo è cosa complessa e mai scontata. Ma, penso di non esagerare, se dico che questo è un quartetto in cui il propellente è il noi, e non solo l’io, e nella nostra musica si percepisce un forte sentimento di condivisione



JC: Il mondo che verrà è in quartetto con Walter Paoli, Mauro Ottolini e Francesco Bearzatti, stessa formazione di The Roar at the Door. Sezione ritmica più due fiati. Come nasce questo progetto e la scelta di avere ancora due fiati come trombone e sax?


RP: Nasce dalla voglia di misurarsi con le sonorità che la combinazione di sax, trombone, euphonium e clarinetto è in grado di fornire. È stato come avere una tavolozza di colori mai usati prima. In passato ho avuto, o fatto parte di, formazioni con uno o addirittura due strumenti armonici; farne a meno mi ha fatto intravedere prospettive nuove e stimolanti. Se poi andiamo oltre la musica e allarghiamo la prospettiva alla condizione generale delle nostre vite, vediamo che oggi le relazioni sociali e di lavoro si sono fatte più difficili, il quadro politico ed economico è segnato da un clima di restaurazione, perdita della centralità del lavoro, preminenza della finanza. La risposta musicale a tutto questo è un sentimento di sconcerto e di rivolta che è meglio espresso da sonorità asciutte, essenziali, a volte “incazzose”, a volte “noir”. Non intendo dire con questo che dietro alla scrittura ci sia una risposta politica cosciente. Durante l’atto creativo io penso a risolvere problemi che sono di natura estetica e formale, ma è un fatto che il quadro psicologico è profondamente influenzato da un clima che non mi piace e nel quale non mi riconosco perché vedo ridursi gli spazi di democrazia e aumentare la concentrazione del potere in poche mani



JC: Sette su otto composizioni de Il Mondo che verrà recano la tua firma, la restante Crickets In My Head è di Bearzatti. Hai scritto i pezzi tutti insieme o sono stati concepiti in diversi momenti?


RP: I brani scritti – dopo aver fissato la data della registrazione e dunque scritti con l’intento di creare/trovare i tasselli mancanti del puzzle che ogni cd è per sua natura -, sono La strada e Tra chiaro e oscuro. Il resto dei pezzi è stato scritto nel corso del tempo sulla scia di suggestioni che di solito traggo da: a) il paesaggio sonoro di un cd che ho appena ascoltato e che mi suggerisce un brano di risposta; b) un’idea che mi viene mentre “gioco” al piano o con il contrabbasso; c) la folgorazione che il più delle volte viene mentre sei in macchina, stai per addormentarti o sei in bagno (o stai per addormentarti in bagno)



JC: L’impressione che si ha ascoltando Il Mondo che verrà è quella di un lavoro corale, ben strutturato e partecipato…


RP: Grazie! Non mi sento di aggiungere altro, mi fa molto piacere che tu abbia tratto dall’ascolto quegli elementi. Molto, molto piacere.



JC: Il disco si apre con La Strada, un pezzo funky, metropolitano (mi ha ricordato alcune sperimentazioni sonore dell’M-Base di Steve Coleman…), per poi proseguire sulla scia con Il Bar delle Fragole, e cambiare strada con soluzioni inaspettate e intuizioni felici come in brani quali Tra Chiaro e Oscuro e Notturno, solo per citarne alcuni.


RP: Se intuisco la domanda che non fai espressamente e che potrebbe essere: «Nel cd si trovano molto riferimenti stilistici. Come riesci a far convivere tutta ‘sta roba?». La risposta è: «Non lo so», e a essere sincero non mi sono mai posto il problema, o meglio, se un problema c’è è quello di operare una sintesi convincente, e questo sì, è compito mio. La valutazione su quanto sia convincente è un compito che spetta agli altri, e a questo giudizio mi rimetto con grande serenità



JC: Il mondo che verrà sta a significare il jazz che verrà? Visto che le tue composizioni contengono anche sonorità etniche, blues, d’avanguardia e funky: un condensato di modernità con lo sguardo in avanti.


RP: Si, in un certo senso è così. La “globalizzazione” mette a confronto storie e identità e culture (e quindi anche culture musicali) diverse, spesso lontane. È un’occasione che dobbiamo vivere come un’opportunità o una minaccia? Per me dobbiamo viverla forti e fieri delle nostre radici ma aperti al confronto e alla conoscenza. Nella musica, e non solo, il processo creativo è il risultato di contaminazione, sbagli, violazione e rinnovamento delle regole e anche il jazz, che già nasce con una forte impronta multietnica e multirazziale, continuerà ad essere vitale se non si chiuderà a difesa dell’ortodossia.



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