Duccio Bertini, A View On Standards

Foto: la copertina del disco










Duccio Bertini, A View On Standards.


Duccio Bertini, sassofonista, compositore, arrangiatore e direttore d’orchestra, ha pubblicato il suo ultimo disco A View On Standars con la Raimbow Jazz Orchestra. Il disco si avvale della presenza del sassofonista spagnolo Perico Sambeat. Quello di Bertini è uno sguardo affascinante, stimolante, fresco e moderno, così come lo sono i suoi arrangiamenti, su alcuni standard o pietre miliari della storia del jazz. La musica suonata esprime allo stesso tempo forza timbrica, spinta verso l’alto, allegria, e incontenibile passione per il jazz, che in alcuni momenti acquista vividi colori sotto la spinta dei fiati. La Rainbow, condotta da Bertini, è un’orchestra coesa che si muove come fosse un corpo unico, con un sound ben definito e una sezione ritmica dai piedi saldi, propositiva e pulsante.



Jazz Convention: Duccio Bertini, tu sei un jazzista con una forte predisposizione alla conduzione. Hai sempre avuto questa passione? Quando hai cominciato a dedicarti tout court alla direzione d’orchestra?


Duccio Bertini: Ho sempre avuto la passione per il jazz, ma alla direzione d’orchestra sono arrivato solo dopo un lungo percorso. Sono cresciuto in una famiglia in cui fin da piccolo si respirava arte e musica. Mia madre è una pittrice che ha esposto in tutto il mondo e mio padre un pianista dilettante che amava suonare Debussy, Bach e soprattutto la musica jazz e il ragtime. Con il suo aiuto a otto anni mi sono avvicinato al piano e poi successivamente al clarinetto ed al sassofono. Ho cominciato poi a studiare arrangiamento e composizione e a scrivere musica per piccoli gruppi (2 o 3 fiati) fino ad arrivare alla Big Band. Nel frattempo mi resi conto che solo dirigendo e coordinando direttamente i miei gruppi si poteva ottenere il meglio dalla musica che scrivevo. Ma a questo punto sorgeva un problema: come imparare a dirigere un gruppo o addirittura un’orchestra jazz? Non esisteva, infatti, allora come oggi, in Italia e nel mondo una vera e propria “scuola” di direzione d’orchestra jazz, dal momento che si credeva, a torto, che la direzione jazz non fosse fondamentale come nel caso della musica classica, per via della presenza della batteria. Mentre mi accorsi subito che solo un direttore poteva, con la sua “concertazione” e con la sua maniera di dirigere, far veramente “suonare” un’orchestra. Per questo decisi di saperne di più sull’argomento e di studiare una mia “gestualità” che fosse allo stesso tempo utile e funzionale e di sperimentare tutto ciò nei vari gruppi con cui ho lavorato.



JC: Così hai cominciato a dirigere orchestre?


DB: Negli ultimi anni ho avuto l’occasione di dirigere molte orchestre in Europa, di cui alcune veramente eccellenti, tra cui la Barcelona Jazz Orchestra, formazione catalana che è una delle poche big band al mondo invitata a suonare al Jazz at Lincoln Center di New York. Dirigo poi due orchestre in Italia, la Futura Jazz Orchestra e la Rainbow Jazz Orchestra. Mi piace essere chiamato a lavorare anche con le orchestre didattiche, delle scuole private e dell’università pubbliche, perché sono situazioni veramente formative per gli allievi. Sono convinto, infatti, che nel “background culturale” di un buon musicista jazz, anche nel caso che si voglia dedicare esclusivamente a una carriera solistica, ci debba essere un’esperienza orchestrale. E questo per gli innumerevoli benefici che un qualsiasi musicista può trarre dal suonare in orchestra, che vanno dalla lettura, l’intonazione, il suono, le dinamiche, l’articolazione ma anche e soprattutto la capacità di stare assieme, l’umiltà e la consapevolezza del proprio ruolo all’interno della partitura e del contesto generale.



JC: Chi sono i tuoi maestri, quelli sulla cui ti sei formato?


DB: Ho avuto molti professori ma gli insegnanti a cui devono di più sono stati sicuramente Giancarlo Gazzani e Bruno Tommaso. Gazzani è un grandissimo didatta che ha formato praticamente quasi tutti gli arrangiatori che attualmente lavorano in Italia. Le sue conoscenze armoniche e la sua perfetta padronanza dell’orchestra mi sono servite nel mio lavoro di arrangiatore e compositore. Ho imparato molto anche da Bruno Tommaso, un musicista eccezionale con la sua visione “filosofica” sull’arrangiamento e sulla musica in generale, senza dimenticare ovviamente le sue concezioni sulla direzione d’orchestra, uniche nel suo genere in Italia. Per il resto mi sono formato ascoltando musica di ogni genere e studiando sulle partiture originali delle grandi orchestre, gli “score”, che nel tempo sono riuscito ad acquistare e a raccogliere per formare una biblioteca personale di partiture, che comprende oggi anche manoscritti rari, e che spesso utilizzo per le mie lezioni.



JC: A chi guardi oggi, quali orchestre ascolti e segui?


DB: Cerco di ascoltare un po’ di tutto, ma la musica orchestrale rimane sempre il mio punto di riferimento, e tra questa sicuramente la mia preferita in assoluto, Maria Schneider, ma anche Kenny Wheeler, Bob Brookmeyer, senza dimenticare gli intramontabili maestri Gil Evans e Duke Ellington. Sempre tra gli attuali trovo interessanti i lavori per combo e orchestra di Ohad Talmor. Ascolto anche molta musica classica tra cui Ravel, Prokofiev, Reger, Hindemith e Copland. Bisogna dire che il lavoro dell’arrangiatore t’impone di avere una conoscenza profonda su tutti gli strumenti musicali e questo si tramuta conseguentemente in una costante curiosità nell’ascoltare qualsiasi tipo di musica e di stile.



JC: Ci sono oggi spazi, occasioni e risorse economiche per gestire e fare esibire orchestre?


DB: Non posso negare che gli spazi e le risorse economiche per le orchestre si siano ridotti notevolmente dopo la crisi del 2009. E questo vale sia per l’Italia che per l’estero. Tuttavia posso dire che all’estero si continua ancora a portare avanti progetti orchestrali perché comunque rimane la sensibilità delle istituzioni pubbliche e dei privati, cosa che invece non vedo molto qui in Italia. In ogni caso rimane il problema che le orchestre hanno bisogno di suonare costantemente, e di avere uno spazio dove esibirsi più o meno periodicamente. Le forme che ho visto possono essere le più svariate possibili come la modalità delle prove aperte al pubblico o del concerto a cadenza settimanale e laddove è possibile realizzarle si può notare una qualità nettamente maggiore nella musica orchestrale.



JC: Come risponde il pubblico quando è di fronte a un’orchestra di jazz nel 2015…


DB: Quello che ho notato durante i miei concerti che in genere il jazz orchestrale viene sempre apprezzato, e questo probabilmente perché la musica, per quanto difficile sia, quando viene suonata da un orchestra assume un linguaggio e dei connotati che sono più fruibili dal pubblico. Certo il periodo d’oro delle Big Band è passato, però sono convinto che il jazz orchestrale sempre esisterà e sempre sarà seguito positivamente dal pubblico.



JC: La tua “anima” è divisa in due tra Firenze e Barcellona… Suonare e fare progetti di jazz in Spagna è come in Italia?


DB: La Spagna è attualmente un paese con una situazione musicale molto stimolante. Non ha avuto in passato una lunga tradizione jazz come da noi, ma negli ultimi tempi ha espresso fenomeni interessanti. La scena musicale jazz è concentrata particolarmente a Barcelona, in Catalunya e a Valencia, da dove provengono i migliori strumentisti a fiato del paese, ma anche nel País Vasco e in misura minore in Andalucia. E poi ci sono molte orchestre: nella sola area metropolitana di Barcelona possiamo contare almeno nove Big Band! Quindi come puoi capire, per il lavoro che faccio, ci sono molte opportunità. Sempre a Barcelona poi esistono tre scuole di studi superiori musicali, il Liceu, l’ESMUC e il Taller de Musics che hanno altrettante Big Band. Quest’ultima scuola, il Taller, che è la più antica istituzione didattica del paese, esprime una delle migliori big band della Spagna, la Original Jazz Orchestra, che ha ingaggi nei locali ogni mese (con un repertorio ed ospiti sempre differenti), e con la quale io collaboro spesso come direttore ed arrangiatore.



JC: Il tuo ultimo disco s’intitola A View On Standards ed è stato registrato con la Rainbow Jazz Orchestra. Come nasce questo progetto?


DB: Registrare un disco per big band è un lavoro estremamente complesso che richiede mesi di preparazione, dalla stesura degli arrangiamenti alla scelta dei musicisti, senza contare poi tutti gli aspetti logistici, organizzativi e di produzione. Qualsiasi decisione e ogni scelta artistica deve essere quindi ponderata bene prima di recarsi in studio. Il progetto Rainbow Jazz Orchestra nasce da un’altra realtà orchestrale locale, che ho voluto portare avanti, modificando l’organico originale e inserendo nuovi musicisti. Attualmente l’orchestra è composta da alcuni tra i migliori talenti del jazz italiano e da musicisti attivi già da tempo sulla scena jazzistica nazionale. Devo moltissimo a questi musicisti, e sicuramente senza il loro aiuto non sarebbe stato possibile realizzare tutto ciò.



JC: Perché hai deciso di fare un disco di standard, e su quali basi è avvenuta la scelta?


DB: L’idea di dedicare un intero disco agli standard può sembrare oggi nel 2015 quasi anacronistica, ed il motivo di questa scelta è legato essenzialmente alle possibilità di elaborazione che un arrangiatore può ricavare dal materiale originale. Arrangiare è un lungo processo di analisi e di sviluppo della melodia, del ritmo e dell’armonia iniziale che termina evidentemente nell’arrangiamento ma più spesso nella stessa ri-composizione del brano originale. E gli standard offrono in questo più possibilità. Ovviamente mi piace comporre ma trovo più stimolante fare sperimentazioni su brani scritti da altri. E con questo disco ho voluto ricercare un punto diverso o una visione personale (A view on Standards, appunto) su un materiale certamente molto abusato e per certi aspetti “vecchio”, ma direi eterno, come quello della tradizione del American Song Book o della musica brasiliana o della canzone italiana.



JC: Malafemmena, di cui hai registrato una versione fresca e accattivante, la possiamo definire uno standard della nostra tradizione popolare?


DB: Si sicuramente, come del resto lo sono anche molte delle canzoni dell’American Song Book. Forse non sai che questo stesso brano “Malafemmena” che troviamo nel disco, mi fu commissionato da una Big Band svedese, che diressi a Stoccolma nel 2013, con la precisa indicazione che arrangiassi un pezzo appunto della tradizione italiana. Pertanto scelsi questa canzone per la sua bellissima melodia, che ho voluto conservare, ma estrapolandola dal contesto originale. Mi piaceva, infatti, che il mio arrangiamento avesse come filo conduttore una nuova prospettiva temporale ed armonica secondo quelle concezioni tipiche del jazz contemporaneo.



JC: Nel disco suona un ospite d’eccezione, il sassofonista spagnolo Perico Sambeat. Raccontaci di questo incontro, com’è lavorare con un jazzista della sua caratura e come lo hai integrato nell’orchestra?


DB: Ho incontrato personalmente Perico Sambeat nel 2013, anche se conoscevo la sua musica da anni. Mi piacque subito il suo modo di suonare che era completamente integrato sia con le miei idee che con l’orchestra e queste sono doti, credimi, che difficilmente s’incontrano anche nei grandi musicisti, ovvero quella capacità di sapere suonare con e non contro l’orchestra. Perico è anche un bravissimo arrangiatore e quindi si spiega il motivo per questa sua sensibilità per il contesto orchestrale. Se si ascoltano per esempio alcuni brani del disco, come “Isn’t it Romantic?” o “Prelude to a kiss” ci si accorge subito che il suo fraseggio è in funzione con tutto quello che sta accadendo sotto, che può un semplice background o un potente shout chorus dell’orchestra, e incredibilmente lui si mantiene sempre in relazione con il contesto generale.



JC: David Liebman, nelle note di copertina, ha definito A View On Standars “…a wonderful project…”


DB: Si, ciò che David Liebman ha scritto sul progetto è stato veramente eccezionale. Ti racconto tuttavia un piccolo aneddoto sulla vicenda. Avevo la necessità di avere una figura autorevole di caratura internazionale per le liner notes del mio ultimo disco e pensai subito a Liebman. Lo avevo conosciuto personalmente tempo fa in Italia e, quando lo contattai spiegandoli il progetto, in un primo tempo mi spiegò che difficilmente si concedeva per un lavoro del genere. Mi propose comunque di mandargli il master per ascoltarlo. Cosa che io feci. Qualche giorno dopo Liebman mi contatta, scrivendomi entusiasta: “The music is really great—well done and Perico is playing great”. E da li le sue bellissime e lunghe note che troviamo come commento al disco. E’ stato veramente un impulso per il progetto, come del resto qualche mese dopo, una volta uscito il disco, ricevetti un altro commento entusiasta sul CD da parte del grandissimo Sammy Nestico, 91 anni ed autentica leggenda del jazz.



JC: Hai già in cantiere un nuovo progetto?


DB: Ho diversi progetti in cantiere. Il prossimo disco che registrerò sarà esclusivamente di musica classica contemporanea da me composta per quartetto e trio d’archi, formazione che è considerata molto impegnativa per la scrittura. Il disco conterrà alcune composizioni che mi furono commissionate dall’Associazione Amici del Loggione del Teatro alla Scala di Milano nel 2013. Poi ovviamente ancora jazz; dovrò registrare due dischi di Big Band a Barcelona e infine sto preparando un progetto orchestrale su miei composizioni jazz con ospiti internazionali previsto per fine 2016.



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