At The End Of The Day, il nuovo lavoro di Federico Casagrande

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At The End Of The Day, il nuovo lavoro di Federico Casagrande


Abbiamo incontrato il chitarrista Federico Casagrande di passaggio a Roma in occasione di due concerti ravvicinati che l’hanno visto protagonista all’auditorium Parco della Musica. Il primo per la presentazione del disco di Fulvio Sigurtà, The Oldest Living Thing, ed il secondo per proporre dal vivo, in coppia con il percussionista Michele Rabbia, i brani racchiusi nel suo nuovo disco, At The End Of The Day, uscito in questi giorni per l’etichetta CAM Jazz



Jazz Convention: Partiamo dalle origini, perché hai scelto la chitarra e come sei arrivato al jazz?


Federico Casagrande: Fatali furono gli scout, serviva un chitarrista e così sono andato a lezione da un insegnante mio vicino di casa che mi ha fatto seguire un percorso classico dove lo studio degli accordi inizialmente  non era contemplato. Da lì ho seguito il cammino standard di ogni chitarrista adolescente, suonando dapprima rock, poi l’inevitabile passaggio al metal, dove la regola era quella di non sorridere mai, poi reggae ed infine ll blues, dove i miei idoli erano presto diventati B.B. King e Stevie Ray Vaughan. Parallelamente facevo il conservatorio a Verona ma anche i seminari a Umbria jazz che mi permisero nel 2002 di vincere una borsa di studio per la Berklee di Boston.



JC: Come andò quell’esperienza a Boston?


FC: Ho studiato in America per due anni e mezzo, è stata un’esperienza davvero tosta ma fondamentale in quanto rispecchia il mio approccio allo studio. Hanno un’impronta molto quadrata, quasi scientifica, come secondo me il jazz deve essere affrontato. È infatti un linguaggio molto complesso e vasto che devi inevitabilmente padroneggiare ad un buon livello per riuscire ad essere creativo. Sono fondamentali due cose in questo percorso: cercare, anche nello studio, di prendere una direzione personale nel suono, nel linguaggio e nelle composizioni. Ho sempre pensato che un musicista ha fatto jackpot quando diventa riconoscibile e la gente dice: questo è lui. Secondo poi deve esserci una volontà di proiezione verso l’esterno, un meccanismo non automatico ma che va coltivato.



JC: Adesso vivi a Parigi. Perché questa scelta di tornare in Europa e come hai fatto ad inserirti in quella scena?


FC: Finita la Berklee, sono tornato per un anno a Treviso ma non vedevo l’ora di ripartire, non per fare un’altra esperienza ma per fermarmi in un posto che mi piacesse dove poter sviluppare una mia carriera. Parigi è una città che adoro e che offre parecchie opportunità, e quindi la scelta fu facile. Partii all’avventura e iniziai a buttarmi nelle jam session. Fui fortunato a capitare in una di buon livello in un ristorante ben frequentato a livello musicale che mi ha permesso di incontrare molti dei musicisti con i quali collaboro tutt’ora.



JC: Sei sempre stato un chitarrista elettrico, invece da un anno a questa parte ti sei concentrato sulla chitarra acustica, a cosa è dovuta questa scelta?


FC: È stata una scelta pratica in realtà: nel 2012 Vincent Peirani mi ha chiesto se volevo sostituire il chitarrista di Youn Sun Nah per una tournée in Corea nel periodo natalizio. Lei è una cantante che ho sempre amato molto che vive tra la Corea e Parigi dove è una vera stella e dove, tra l’altro, ha vinto un disco d’oro con un lavoro uscito per la Act. Aveva bisogno di un chitarrista acustico, e sebbene io non possedessi ai tempi nemmeno una chitarra acustica, mi son detto che non potevo farmi sfuggire quell’occasione; così mi presentai all’audizione, la passai e da lì mi si aprì un mondo.



JC: Acustica che torna protagonista anche in questo nuovo tuo album, il tuo secondo da leader per la CAM Jazz


FC: Era un periodo che ascoltavo pochissime cose, ma in modo ossessivo: Nick Drake, John Shannon ma ero anche affascinato dalle contaminazioni più elettroniche di James Blake. Amo le dimensioni intime e pensando a questo disco volevo sviluppare un percorso più privato e personale. Ho registrato tutte le composizioni del disco in solo, registrando un pre disco a casa. Poi attraverso un dvd ho scoperto Michele Rabbia e così è nata l’idea di dare una dimensione diversa ai brani, allargando la formazione ad un quartetto completato da Vincent Courtois al violoncello e da Vincent Peirani all’accordion, e registrando con loro il cd in un giorno e mezzo a Parigi. Da lì ho iniziato a prendere gusto con l’acustica registrando l’anno scorso altri tre dischi con questo strumento, due con Pieranunzi a novembre ed il disco in uscita di Fulvio Sigurtà presentato proprio ieri dal vivo. Tecnicamente ho dovuto reinventarmi, studiare i legati e le altre caratteristiche proprie dell’acustica, un lavoraccio che mi è servito, anche se l’elettrica rimane ancora lo strumento che suono di più.



JC: Il disco però mantiene la sua intimità nonostante la formazione allargata, ricreando atmosfere notturne. Stasera lo presenti per la prima volta in duo con Michele Rabbia: cosa e quanto cambia dal vivo?


FC: Il disco è stato concepito proprio per un ascolto notturno, in genere prima compongo, poi lo riascolto e poi creo una storia; anche il titolo stesso ha una duplice lettura, la fine del giorno ma anche la resa dei conti. È pensato per quel momento a fine giornata in cui ti trovi davanti al tuo bicchiere di whisky e sei in bilico tra ciò che hai fatto e ciò che ti aspetta l’indomani. Un disco particolare, trasversale ma molto quadrato. Dal vivo invece ci sarà molto più spazio per l’improvvisazione e stasera voglio proprio godermi le percussioni e la vitalità di Rabbia.



JC: Hai viaggiato e suonato nei palchi di mezzo mondo, come è vissuto il jazz lontano da noi?


FC: Negli Stati Uniti, le grandi città sono sature di musicisti, la domanda si è abbassata e di contro l’offerta si è notevolmente alzata, sia in termini qualitativi e tecnici che di marketing e promozione: lì devi saperti vendere bene, tutti hanno un proprio video, un book fotografico, sono tutti attivi sui social network e ogni singolo musicista è promoter di se stesso. Io ci ho provato, ma stare dietro a tutto è impossibile e alla fine si rischia di suonare pochissimo. A Parigi c’è molta più attenzione al jazz rispetto all’Italia, ma anche lì le alternative sono molte e se vuoi suonare nei club devi darti da fare in termini di pubblicità; capita spesso che ti mandino i giorni prima del concerto l’elenco dei biglietti venduti in prevendita ricordandoti di fare promozione. Diametralmente opposta invece la situazione in Cina, dove, nonostante la mia fobia dell’aereo, ci son tornato per ben dieci tournée. Lì è tutto una novità per loro, il pubblico è estremamente accogliente e tutto è freschissimo; quando suoni c’è un livello di attenzione altissimo e alla fine del concerto sono tutti entusiasti chiedendoti foto e autografi.



JC: Come si può far tornare, a tuo avviso, lo stesso entusiasmo pure da noi?


FC: La parola jazz da noi fa ancora paura al grande pubblico, la vedono ancora troppo impegnativa, anche se poi è una musica talmente ampia che ce ne sarebbe per tutti i gusti. Anche a Parigi il problema vero è portare i giovani ai concerti, un’idea potrebbe essere quella di riuscire a far suonare gruppi jazz in festival non dedicati esclusivamente al jazz, oppure nei musei o nei locali alla moda in modo da arrivare ad un pubblico che non sia soltanto quello già preparato dei jazz club. Stiamo andando in una direzione in cui c’è sempre più spazzatura in giro e meno gente che abbia voglia di ascoltare cose diverse, che magari richiedono più attenzione. Io tuttavia non la vedo come una limitazione, preferisco fare cose che mi piacciono e mi appagano, rispetto a riempire le grandi sale.



JC: Un consiglio a chi vuole intraprendere il tuo stesso cammino?


FC: L’ascolto è fondamentale, poi lo studio e viaggiare il più possibile…