Foto: La copertina del libro
Sergio Pasquandrea. Breve storia del pianoforte jazz
Un racconto in bianco e nero
Arcana Jazz, 2015
Un bel libro di sintesi e di riflessione. Sergio Pasquandrea tratteggia per la prima volta le linee essenziali della storia del pianoforte, strumento europeo per eccellenza, nella lunga vicenda della musica sudafricana. Lo fa con grande lucidità, stabilendo fin dalla premessa i caratteri della sua ricerca e facendo ammenda immediata delle esclusioni (Hank Jones, Cedar Walton e Joe Zawinul fra gli altri).
Si trattava di scegliere, afferma lo studioso pugliese, e la sua scelta è stata quella di concentrarsi da una parte sui pianisti che hanno dettato le linee essenziali del pianismo jazz influenzando le generazioni coeve e successive (Earl Hines, Bud Powell, Bill Evans), dall’altra le stelle solitarie (Art Tatum, Thelonius Monk, Ahmad Jamal, Lennie Tristano). In mezzo ci sono illustri, e dolorose per l’autore, esclusioni, ma anche una serie di ritratti ben riusciti (Fra gli altri Jelly Roll, James P. Johnson, Errol Garner, Oscar Peterson, Teddy Wilson, Dave Brubeck, Horace Silver, Herbie Hancock, Chick Corea, Keith jarrett, Paul Bley). Ai pianisti europei è dedicato un capitolo a fine libro.
Date queste necessarie premesse occorre dire che il libro è ben riuscito. È scritto con molta chiarezza e si legge davvero volentieri. Il dosaggio fra disquisizioni tecniche e l’elemento narrativo è davvero ben riuscito e le brevi biografie dei nostri eroi della tastiera sono sempre vivide e ben raccontate. Cosi com’è sempre ben spiegato e documentato uno degli assunti principali del libro: quello secondo cui la storia del Jazz non procede per cesure stilistiche e per giustapposizione di generi. I confini fra tradizione e avanguardia sono sempre sfuggenti, imprecisi. Il jazzman è un animale musicale onnivoro che si nutre e si abbevera non solo nei territori della tradizione afro-americana, ma anche nei pascoli della musica europea, della canzone popolare. Pasquandrea insiste molto su questo concetto e fa benissimo. Come fa benissimo a mettere a fuoco il dato che Duke Ellington è anche un grande pianista o che Dave Brubeck non è solo un musicista adatto solo a un pubblico bianco ma anche un raffinato sperimentatore che ha influenzato molti colleghi afro americani. Il libro, insomma, fa sentire, con efficacia il calore e i mille profumi che emanano tuttora dal grande, ribollente calderone del jazz. Notevole, in questo senso, il capitolo sull’hard-bop. Ottimo l’apparato di note e giusta l’idea di non appesantire il libro con discografie labili e spesso prolisse.
Certo, mancano temi come quello della diffusione delle tastiere elettroniche, o dei pianisti del vecchio continente (Bobo Stenson, tanto per fare un esempio, è citato una sola volta e di passaggio). Speriamo che Pasquandrea voglia riprendere, in un prossimo libro, questi argomenti.