Slideshow. Yuri Goloubev

Foto: Fiorenzo Pellegatta










Slideshow. Yuri Goloubev.



Jazz Convention: Yuri, anzitutto cosa stai combinando di tuo, a livello jazzistico?


Yuri Goloubev: Sono sempre impegnato in parecchie cose; mi chiamano spesso diversi musicisti (italiani e non per far parte nei loro progetti. Poi, per quanto riguarda le cose a mio nome oppure in collaborazione, recentemente la famosa etichetta tedesca ACT ha pubblicato Reverie at Schloss Elmau registrato in duo con lo splendido pianista inglese, Gwilym Simcock. Ho il piacere di collaborare con lui da ormai dieci anni (e lui ha partecipato al mio album Metafore Semplici uscito per la Universal nel 2009); abbiamo appena suonato insieme a Ralph Towner e Javier Girotto nel nuovo progetto chiamato Double Duo: è stato molto bello, speriamo si continui. Poi, sto mettendo in piedi un mio trio con un altro fantastico pianista inglese, Jason Rebello (che ha per anni militato nei gruppi di Sting e Jeff Beck), mentre alla batteria c’è un batterista davvero straordinario con il quale ho inciso circa trenta dischi, l’israeliano Asaf Sirkis, anch’egli domiciliato in Inghilterra, dove ormai lavoro molto anch’io.



JC: Tu sei anche molto richiesto come contrabbassista nella formazioni di altri jazzisti…


YG: Un altro progetto molto bello, anche se non è a mio nome (ma comunque è una collaborazione equa tra tutti e tre i musicisti) è il Michele Di Toro Trio. Abbiamo appena pubblicato Play, il nostro terzo album per l’Abeat Records, e ovviamente lo stiamo promuovendo. Poi, ci sono sempre tante collaborazioni interessanti da sideman, come quelle con i trii di Maciek Pysz, Alex Hutton, Fabienne Ambuehl, Roberto Olzer: grazie a quest’ultimo il nostro album Steppin’ Out è stato nominato “miglior disco dell’anno 2013” in Giappone, e in giugno andiamo in tournée proprio nel Paese del Sol Levante, poi in settembre incideremo un nuovo disco, sempre per l’Abeat… Recentemente, un’ottima cantante Bergamasca, Silvia Infascelli, ha pubblicato un CD con me al contrabbasso più Frank Harrison al piano e lo stesso Asaf Sirkis alla batteria: e quasi tutti gli arrangiamenti sono stati scritti da me, quindi questo lavoro è un po’ anche un “mio figlio” e sono molto contento di come sia riuscito.



JC: Com’era la tua vita musicale prima di arrivare in Italia?


YG: Beh, il mio percorso professionale è stato abbastanza “comune”, anche se di livello piuttosto alto: la Scuola Centrale della Musica di Mosca, e poi il Conservatorio Tchaikovsky. Avevo iniziato a lavorare già nel primo anno del conservatorio – prima in un’orchestra da camera, poi ho passato un anno al Bolshoi, e poi mi hanno invitato a far parte del famosissimo complesso cameristico, I Solisti di Mosca diretto da Yuri Bashmet, dove ero rimasto come Primo Contrabbasso per più di dodici anni. Così ho girato quasi tutto il mondo, pur essendo “ufficialmente” residente a Mosca. Il jazz l’ho ascoltato sin dalla piccola età, avevo sempre un po’ di timore di suonarlo davanti al pubblico, soprattutto al contrabbasso (suonavo anche il pianoforte), ma alla fine il timore lo superai (come si vede!), iniziando ad apparire sui palchi dei vari club e festival a partire dalla seconda metà degli anni Novanta. Gradualmente, il jazz stava diventando una cosa sempre più importante per me; credevo che per imparare di suonarlo “sul serio”, bisognava totalmente dedicarsi a questo genere anziché rimanere “seduti sulle due sedie e perciò, nel 2004, decisi di mollare l’orchestra e la mia carriera classica, diventando un jazzista a tempo pieno. Ricordo che, al mio arrivo in Italia, quasi mi sentivo di voler accettare qualsiasi lavoro nel jazz – anche a soli quaranta euro – tanto per suonarlo, conoscere la gente e imparare le cose. Scherzavo sul fatto di dover andare a suonare al bar Trottoir di Milano dopo essermi abituato a suonare in posti come la Carnegie Hall! Ora sono passati più di dieci anni, la situazione è migliorata, diciamo, notevolmente per me, non scendo più a molti compromessi, però devo dire che questi anni mi sono proprio serviti e ho imparato davvero tantissimo come jazzista.



JC: Come rammenti l’epilogo dell’URSS o Unione Sovietica?


YG: Mi ricordo che stavo andando a suonare in Grecia in treno(!), eravamo arrivati a Tessalonica, e c’era questo uomo che correva sulla piattaforma urlando “Gorbaciov kaput!” All’epoca, gli iPhone non esistevano, quindi non potevamo nemmeno essere al corrente dell’accaduto… Comunque, per me non era cambiato assolutamente niente, non ne ho subito né benefici, né danni. Potrei però dire che dopo il crollo dell’Unione Sovietica c’era un bel po’ di paura che tutto tornasse indietro verso una dittatura, e questa paura era ben fondata. A livello professionale, invece, l’unica cosa che mi ricordo bene è la crisi finanziaria che ha colpito le orchestre dopo il crollo dell’URSS: per molti, stava diventando sempre più difficile mantenersi con questo mestiere. Fortunatamente, io non ne ho mai subito alcuna conseguenza, però molti colleghi purtroppo sì. Per quanto sappia io, adesso la situazione è migliorata moltissimo, le orchestre sono pagate davvero bene e molte ricevono anche il supporto dallo Stato.



JC: Com’era la situazione del jazz a Mosca prima e dopo Gorbacev?


YG: Per quanto riguarda il prima, ero troppo giovane (oppure non ero nemmeno nato!) per dire qualcosa di preciso. Per quanto riguarda il dopo… Potrei soltanto dire che ci sono, ovviamente, molti jazzisti in Russia, le due cose che sono diverse da come siamo in Europa è che molti jazzisti russi sembrano orientarsi verso il jazz americano degli anni sessanta, o comunque suonare/scrivere come gli americani. Mentre mi sembra che in Europa (e negli stessi Stati Uniti) non esista questa cosa, i musicisti cercano piuttosto di suonare/scrivere per “loro stessi”, e non copiare gli altri, anche se certe influenze sono inevitabili. Poi, una notevole fonte di guadagno per i jazzisti russi oggi sono le feste private, e non i concerti veri i propri (anche se ce ne sono tanti), come in Europa. Non so se era così prima di Gorbacov, direi proprio di no! Poi, molti jazzisti (soprattutto i batteristi) fanno di tour con le pop star. Allo stesso tempo, vorrei sottolineare che non abitando da quelle parti da un bel po’ di tempo, non posso dire niente con la dovuta precisione, perché non conosco bene le realtà odierne in Russia…



JC: Ti è capitato di tornare in Russia a suonare con i musicisti russi in questi anni?


YG: No, neanche una volta, tranne forse i due concerti in Ucraina qualche anno fa con il gruppo di Giovanni Falzone, che non sono stati organizzati da me, e non coinvolgevano nessuno dell’ ex Unione Sovietica, tranne me al contrabbasso! Beh, se poi un giorno mi capitasse di andarci per qualche concerto, va benissimo, ma se non mi capitasse, va bene lo stesso.



JC: Cosa succede di veramente interessante a livello jazzistico nelle ex repubbliche sovietiche?


YG: Purtroppo, non sono abbastanza aggiornato sulla cosa. Non seguo nessuno lì. Per quanto mi ricordo, i musicisti della vecchia URSS erano più o meno divisi in due categorie: quelli dell’avanguardia (una sorta di free jazz) e quelli che cercavano di suonare il bebop come gli americani dell’epoca (come detto prima). Non c’era quasi nulla di mezzo (con poche eccezioni, come, ad esempio, Andrey Kondakov, talentuoso pianista e compositore di San Pietroburgo, con cui avevo collaborato e registrato diverse volte), cioè non esisteva un jazz stilisticamente più vicino a come si suona in Europa e negli USA al giorno d’oggi. Quando mi capita di guardare qualche video, su YouTube, dei musicisti russi, mi sembra che la situazione non sia cambiata molto. Però ho visto poche cose, sicuramente ci sarà della gente talentuosa (non rivolta o ferma a mezzo secolo fa) che non conosco!



JC: Ma c’è o c’era un’identità del jazz russo?


YG: No, non penso esista. Perché il jazz russo non esiste. Perché non può esistere come non c è un jazz, diciamo, tedesco, danese, italiano, olandese, ecc. Esiste il jazz eseguito dai musicisti Russi, oppure Tedeschi, Danesi, Italiani, Olandesi e così via. Se volessimo parlare delle influenze della musica russa nel jazz, saremo piuttosto nell’ambito di folkjazz, che è un po’ un’altra cosa. Il puro jazz (che di se è già una cosa spazialmente ampia a livello stilistico!) è un linguaggio internazionale; senz’altro, ognuno di noi aggiunge poi la propria personalità, ma preferirei evitare di vederle come influenze “nazionali”.



JC: Ti ricordi di avere sentito dal vivo, all’epoca, in URSS, il Ganelin Trio?


YG: Quando era famoso, ero purtroppo troppo giovane. Sicuramente devo aver sentito diverse cose, anche perché andavo a sentire tantissimi concerti, sia di classica che di jazz, però adesso non mi sono rimasti tanti ricordi di tutto ciò… Dovrei mettermi ad ascoltare le loro registrazioni per avere un’impressione più precisa!



JC: Pensi che gli studi al Conservatorio di Mosca ti siano serviti per diventare un grande jazzista?


YG: Ritengo sia necessario che un musicista abbia una formazione solida. Però… ritengo anche che dobbiamo imparare da noi stessi, nel senso del fare un lavoro interno, per dire, analizzando come suonano e compongono gli altri. Mi sono serviti piuttosto gli studi alla Scuola Centrale della Musica di Mosca dove ho studiato dal 1981 fino al 1990. Il conservatorio, onestamente, non mi ha dato moltissimo tranne la laurea e magari qualche ottimo consiglio del mio insegnante! Avevo iniziato a lavorare nelle orchestre essendo ancora uno studente del primo anno, e quindi gli studi diventarono piuttosto una cosa “obbligatoria”. Comunque, ripeto, l’importante è studiare seriamente, poi il percorso ufficiale è una cosa meno significante. Puoi aver fatto un conservatorio, e comunque non diventare il fuoriclasse. Oppure il contrario. Uno degli esempi più conosciuti: il famosissimo pianista classico Alfred Brendel che non ha studiato mai al conservatorio!