Foto: Ferdinando Caretto
Torino Jazz Festival 2015
Torino – 28.5/2.6.2015
Si è conclusa il 2 giugno la IV edizione del Torino Jazz Festival, che anche quest’anno si è confermato un appuntamento imprescindibile per gli appassionati, un concentrato di produzioni originali e concerti unici, un grande evento di portata internazionale. Sei giorni a tutto jazz dalla mattina a notte fonda con più appuntamenti ad ogni ora implicano che seguire tutto fosse impossibile, per non parlare dei chilometri che gli spettatori hanno macinato su e giù per il centro di Torino per raggiungere le numerose location: da Piazza San Carlo per il main stage a Piazza Vittorio Veneto per l’area cooking and relaxing e le tre night towers per gli appuntamenti “elettronici” serali, dal Teatro Carignano al Teatro Colosseo per i concerti a pagamento, dal Jazz Club Torino al Circolo dei Lettori, dal fiume Po per Music on the river, appuntamento serale con un assolo sulla zattera in mezzo al fiume, al nuovo grattacielo San Paolo, per finire con tutti i locali del centro che hanno ospitato le più svariate formazioni per la parte Fringe. Anche quest’anno il festival ha coinvolto un numero impressionante di location e realtà della città di Torino per un record di partecipazione di pubblico.
Il festival ha aperto questa fortunata edizione con un evento davvero unico: la performance del Sonic Genome di Anthony Braxton al Museo Egizio recentemente restaurato e riaperto al pubblico. In questo luogo apparentemente inadatto, austero e dagli spazi ristretti, per otto ore di fila hanno suonato circa 70 musicisti per un concerto-happening coinvolgente e inatteso. Anthony Braxton, compositore eclettico e sperimentale, ha tentato di spiegare la sua idea compositiva nella conferenza stampa citando concetti complessi e disparati e mettendo a dura prova il pubblico, per poi mettere da parte i suoi appunti ed esclamare «Basta, lasciamo perdere tutta questa roba. Ho scritto tutto questo stanotte ma è troppo lungo. Quello che conta è il potere comunicativo della musica!». Eseguito al Museo Egizio per la prima volta in Europa e per la terza volta in assoluto, il Sonic Genome prevede una sonorizzazione degli ambienti ad opera di piccole formazioni che attraversano le sale del museo e, sostando tra un sarcofago e una statua, propongono elementi di improvvisazione estemporanea e brevi composizioni di Braxton. L’idea di fondo è quella di una ghost trance music, una linea melodica ispirata alle musiche dei nativi americani che accompagni lo spettatore per tutto il percorso del museo, unita a momenti di improvvisazione guidata secondo la language types, un codice ideato da Braxton di una dozzina di segni a cui si associano determinati elementi melodico ritmici. Il risultato è una performance mai vista, coinvolgente e spiazzante. Lo spettatore si ritrova immerso in un continuum musicale di cui diventa parte: è una performance dove tutto ciò che accade è legato al momento, al luogo, ai musicisti e agli spettatori in un unico momento collettivo.
Altro appuntamento imperdibile è stato il concerto di Ron Carter nella formazione del Golden Striker trio con Russell Malone alla chitarra e Donald Vega al pianoforte. Poche parole si possono spendere su Ron Carter se non per sottolineare la sua eleganza melodica, il suo suono pieno, il suo trainante senso ritmico e la sua precisione assoluta che a 78 anni dopo una sterminata discografia e serie di collaborazioni non gli fa sbagliare una nota. Si presentano tutti e tre sul palco in completo nero e cravatta rossa, con un’eleganza raffinata in linea con la musica che propongono, un omaggio alla tradizione nella sua più alta espressione. I brani sono delicati e intimi, molto estesi soprattutto nelle loro conclusioni che si protraggono come momenti di libera espressione dei solisti. Una perla è il brano Samba De Orpheus in cui Ron Carter suona ed improvvisa unicamente accompagnato da un morbido tappeto in sottofondo della chitarra di Russell Malone.
Ma i concerti di rilevanza internazionale sono stati molti di più e vale almeno la pena di citarne qualcuno: innanzitutto il concerto del premiatissimo Steve Lehman Octet al grattacielo San Paolo; la versione originale della Passione Secondo Matteo di James Newton, un progetto in esclusiva voluto dal Torino Jazz Festival; la banda scatenata dei giapponesi del Shibusa Shirazu; il trombettista sudafricano Hugh Masekela; il sassofonista David Murray che ha interpretato insieme alla Lydian Sound Orchestra il repertorio di Ellington e Strayhorn in occasione del centenario dalla nascita di quest’ultimo, così come lo stesso omaggio proposto da Danilo Rea in piano solo; il concerto di Fabrizio Bosso ispirato al film Il Sorpasso; il quartetto afrocubano di Omar Sosa e moltissimi altri.
Questa edizione del festival è stata funestata dalla tragica scomparsa del trombettista Marco Tamburini, mancato il 29 maggio, e a cui sono stati dedicati tanti concerti in un rimbalzarsi di omaggi alla sua memoria da un palco all’altro.
Il Festival si è concluso con il concertone sul main stage che dal primo pomeriggio si è protratto fino a sera (concerto tradizionalmente del primo maggio quest’anno spostato al 2 giugno: il festival è stato infatti posticipato per coincidere con l’Expo e per scongiurare le piogge torrenziali di fine aprile che a maggio si sono mostrate più clementi). Tra i musicisti sul palco il Trio Bobo, vale a dire la sezione ritmica di Elio e Le Storie Tese insieme al chitarrista Alessio Menconi per un tripudio delle virtuosistiche sonorità funk e fusion; il cantante eclettico e sperimentale John De Leo; i musicisti della Juilliard Jazz School di New York con gli studenti del Conservatorio di Torino; Francesco Bearzatti con il suo progetto di rivisitazione del repertorio di Monk in chiave rock; Nicky Nicolai e Stefano Di Battista accompagnati dalla Torino Jazz Orchestra per un omaggio del repertorio dei grandi successi italiani in chiave swing. Finale decisamente sottotono con la Original Blues Brothers Band (o meglio, di quel che ne resta): una scelta condizionata dalla necessità di un gran finale per coinvolgere un pubblico ad ampio raggio ma che non rende giustizia ad una selezione artistica di così alto profilo.
Torino anche quest’anno si conferma città del jazz, epicentro di tante iniziative legate a questa musica e di tante realtà consolidate che ne portano avanti la diffusione non soltanto nelle giornate del festival. Due sono le testimonianze che avvalorano il longevo amore di questa città per la musica jazz: la prima è il libro di Marco Basso appena pubblicato (Torino la città del jazz, edito da svpress) che ricostruisce la lunga tradizione di concerti memorabili a partire dagli anni 30 e la storia dei tanti appassionati che vi hanno preso parte; la seconda è il documentario di prossima uscita – e intitolato Compro Oro: vivere jazz, vivere swing – per la regia di Toni Lama, dedicato allo storico e glorioso Swing Club di Torino degli anni ’70, oggi tristemente sostituito da un esercizio di compravendita di preziosi a pegno. È attiva una campagna di crowdfunding per sostenere il progetto di questo documentario sul sito www.swingclubtorinofilm.it.
Lunga vita al jazz a Torino!
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