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Oleg Smirnov. Il jazz vissuto in Russia.
Oleg Smirnov, attualmente impegnato al Berklee College of Music di Boston, è tra i maggiori jazzmen russi. Attivo a Mosca, fin dagli anni Novanta, è noto via via come bassista, producer, compositore, performer, nonché leader del gruppo EXIT project, di cui esistono ben sette album: Live Electricity (2002), Hack The World (2005), Mystery Journey of Girl with her Death (2007), Live at Golden Mask (2007), Shanti Place (2010), LiveSplashes (2011), Color Splashes (2014). Come musicista, Oleg Smirnov parte dal jazz per aprirsi a un felice connubio di fusion, elettronica, world music, avanguardia colta, riuscendo altresì a collaborare con solisti quali, ad esempio, i russi Sergey Letov, Nikolay Rubanov Gregory Sandomirsky, Kirill Parenchuk, il francese Alexandre Madeline e l’azero Emil Afrasiyab. Vanta altresì un progetto in Gran Bretagna con l’icona pop Marc Almond, mentre come didatta insegna arrangiamento contemporaneo, armonia jazz e composizione. In quest’intervista racconta la non facile transizione dall’URSS alla Russia in fatto di jazz.
Jazz Convention: Cosa sai del cosiddetto jazz sovietico? Che ricordi hai?
Oleg Smirnov: Devo tornare alla mia infanzia quando mio padre utilizzava uno scaffale per una collezione di dischi in vinile. Ne ricordo uno chiamato Jazz 66 pubblicato dalla Melodiya, casa discografica di stato sovietica. L’album era caratterizzato da una raccolta di alcuni notevoli esibizioni dal vivo dal Jazz Festival di Mosca appunto del 1966.
JC: Ma le vicende del jazz in URSS iniziano assai prima o no?
OS: La storia del jazz sovietico risale agli anni Venti. La prima jazz band professionista apparve in diretta su Radio Mosca già nel 1928. Tuttavia, il jazz come fenomeno culturale più ampio ha iniziato a diffondersi in tutto il paese solo dopo il 1960. Le generazioni di intellettuali dell’epoca post-Stalin sono cresciuti ascoltando quei dischi Melodiya in vinile di artisti jazz sia nazionali sia stranieri, che di tanto in tanto erano esposti a performance live nei festival jazz che erano pochi e piuttosto irregolari nel paese, ma più spesso il jazz si ascoltava nei teatri di varietà locali che presentavano i concerti di jazzmen nazionali in tour. Le visite di jazzisti occidentali erano un’occasione rara e quindi quasi sempre un evento sensazionale. Fu nei primi anni Settanta quando le orchestre di Duke Ellington e Thad Jones & Mel Lewis effettuarono i tour con successo nell’URSS ad avere una grande risonanza pubblica, che ciò contribuì al crescente interesse per il jazz come forma d’arte. Le autorità sovietiche avevano un atteggiamento ambiguo, perché il jazz veniva associato allo stile di vita e all’ideologia occidentali. Tuttavia, da metà dei Seventies jazz e popular music sono stati ufficialmente introdotti nel sistema di educazione musicale professionale statale, e dipartimenti jazz erano promossi in varie scuole di musica e in conservatori di diverse città dell’Unione Sovietica.
JC: Ma com’era suonato il jazz in URSS?
OS: Fin dai tempi sovietici ci sono state due importanti prospettive su ciò che il jazz è. La prima – la cosiddetta ortodossia jazzistica – concerne la comunità musicale che affronta il jazz come forma d’arte predefinita, sostenendo che sia possibile aderire al jazz, provando a riprodurlo con qualche tocco personale all’interno della cornice prestabilita del genere. Proprio come in altri paesi, in URSS si suonavano quegli standard swing e bebop (o gli stili più recenti) che la scena jazzistica americana sviluppa in tutto il XX secolo, insieme ai propri brani, composti ed eseguiti idiomaticamente. Questi jazzmen cosiddetti “straight-ahead” guardano ai ‘maestri’ americani, riferendosi al loro modo di suonare per tendenza e canone. E ci sono dunque alcuni brillanti suonatori incredibilmente talentuosi in questa parte della scena jazz russa. La seconda prospettiva sul jazz riguarda un punto di vista diverso. Un secolo fa il jazz americano nasce dall’originale folklore afroamericano. Tuttavia, il jazz si è diffuso gradualmente in tutto il mondo e ha perso quel particolare sapore americano, incorporando la musica autentica che è naturale alla cultura autoctona.
JC: Ma c’era un’identità tipicamente sovietica del miglior jazz?
OS: Credo che il volto più originale del jazz sovietico sia quello del jazz dell’era post-sovietica, a mio avviso, dovrebbe essere associato con l’arte d’avanguardia e con i precursori nella cosiddetta nuova musica improvvisata: discendevano del jazz e cercavano di uscire dai generi convenzionali e di fondere varie forme artistiche e musicali, a volte, in apparenza incompatibili, nella ricerca e nel perseguimento di un nuovo quid espressivo. Ci sono stati numerosi artisti importanti in questa scena, ma il più autentico oracolo in questa direzione è stato un prodigio carismatico: un compositore, pianista, improvvisatore e filosofo come Sergey Kuryokhin, la cui influenza è difficile da sottovalutare sulla musica, sull’arte e sul movimento intellettuale sia del tardo jazz sovietico e di quello russo odierno.
JC: Come è stata vissuta la transizione dall’URSS alla Russia, da Gorbacev a Eltsin, nella Storia del jazz?
OS: I tardi anni Ottanta e l’inizio dei Novanta sono stati il momento della grande transizione nella società russa e l’unico periodo della nascita di un’arte d’avanguardia e dell’interesse del grosso pubblico nel disperato tentativo di colmare la lacuna concettuale lasciata dopo la caduta dell’ideologia comunista. Figure come Kuryokhin erano frequenti alla TV di stato e i dibattiti filosofici erano una cosa comune sui talk show. Insieme con Kuryokhin, artisti come la cantante Valentina Ponomareva, i sassofonisti Vladimir Chekasin e Sergey Letov sfidano la comune comprensione dei generi sonori, mescolando il jazz convenzionale assieme al folk e alla classica e con precisi dispositivi di improvvisazione libera, fino a ottenere un prodotto artistico semanticamente provocatorio. Gli eventi culturali e politici nel paese attraggono l’attenzione dei critici occidentali per ciò che era accaduto nel jazz sovietico. Molti notevoli artisti russi jazz sia mainstream sia sperimentale sono stati in tour in giro per il mondo impegnati in varie collaborazioni con colleghi occidentali come John Zorn, Bill Laswell, Jan Garbarek, eccetera. Alcuni di loro, come i pianisti Mikhail Alperin e Vyacheslav Ganelin, la cantante Sainkho Namchalak e il trombettista Valery P?n?marev emigrarono in America o in Nord Europa per affinare e proseguire la propria carriera. Nel frattempo, gli anni Novanta hanno inoltre visto l’affermarsi di una scena jazz più tradizionale in Russia con tante comunità locali di jazz emergente nelle principali città, in particolare nella parte europea del paese. I grandi nomi del jazz russo-sovietico sono stati in tour nelle sale pubbliche dove si fa musica, sparse sul territorio, in genere condividendo un concerto con i jazzisti del posto.
JC: Che differenze hai riscontrato tra il pubblico americano e quello russo in merito al jazz?
OS: Certo, il contesto culturale specifico definisce come viene percepito e suonato il jazz. Da quando il jazz è nato nella cultura americana, facendone parte indiscutibilmente, la gente qui può facilmente riferirsi al jazz, perché da sempre è qualcosa di abbastanza informale, ma dal grande orientamento sociale e comunitario. Diversamente dagli Stati Uniti degli anni Trenta, in Russia il jazz non è mai stata una musica popolare. Quindi non ha il sapore o il senso di spettacolo e di intrattenimento come ha tradizionalmente negli Stati Uniti. In una certa misura, in Russia il jazz è stato incorporato nella grande arte assieme alla musica classica, all’opera e al balletto. Così è più spesso suonato in sale da concerto locali piuttosto che nei jazz club, che al momento sono ancora pochi. Oggi penso che il jazz, tra slancio e generosità, venga percepito seriamente in Russia. Tuttavia, è molto meno ascoltato di un tempo e, in effetti, non è compreso da molte persone In tal senso la scena jazzistica, così come la cosiddetta industria del jazz, risultano significativamente assai più piccole in Russia che nei paesi occidentali o in certe ex repubbliche sovietiche. Tuttavia, l’annuale Gnesin Russia Academy del Music Jazz Festival attira decine di giovani musicisti provenienti da tutto il paese.
JC: Ma oggi esiste un’identità del jazz russo?
OS: Credo che il jazz russo abbia la sua identità e si trovi al crocevia di una profonda e scuola russa autentica di musica classica e di improvvisazione jazz. È inoltre possibile aggiungere un po’ di folklore russo originale per rendere il quadro completo. Artisti come Arkady Shilkloper, Vladimir Volkov e Ivan Farmakovsky sono brillanti esempi di tale identità. Alcuni della generazione più giovane, come il pianista Evgeny Lebedev, uniscono il meglio dei due mondi, grazie appunto a un vasto background classico, europeo e russo, unito al jazz americano contemporaneo, insomma un sapere condito dall’esperienza della recente scena alternativa newyorchese.
JC: Ci puoi raccontare quello che stai facendo sul piano musicale?
OS: Beh, per cominciare, non ho l’identità del jazzista mainstream. Io suono jazz, tuttavia, come bassista. Penso piuttosto a me stesso come a un produttore musicale che utilizza abbondantemente il linguaggio jazzistico in termini di dispositivi che possono organizzarsi via via in forma di composizione, strumentazione e improvvisazione. Ma non mi limito esclusivamente al linguaggio jazzistico, perché mi piace utilizzare generosamente altri strumenti musicali a portata di mano.
JC: E di Exit project cosa ci dici?
OS: Exit project è stato avviato più di dieci anni fa ed è un diretto discendente dall’epoca post-sovietica, figlio intellettuale della scena avanguardista, così come è memore di alcune influenze globali. Noi abbiamo registrato e suonato con la vecchia generazione di musicisti jazz come Sergey Letov (Kuryokhin) e Nikolay Rubanov (Auktyon). Il collettivo ha poi voluto fare esperimenti con diversi generi sonori, nonché con strumenti di editing musicale, come l’innovativo formato digitale 3plet, con noi pionieristico.
JC: Ma per te non c’è ovviamente solo Exit project…
OS: I due progetti in cui siamo stati impegnati negli ultimi anni sono diversi a livello musicale e concettuale. Il primo, Son Cherished Most, è un progetto multimediale che è disciplinato da un assioma filosofico espresso a parole. La musica ha un ruolo importante, ma vive insieme alle immagini visive e alla poesia, servendo a illustrare l’idea esistenziale precisata a nel testo letterario. Il video documentario che abbiamo girato elabora in modo approfondito il tema stesso. Il secondo, Color Splashes, è una collaborazione tra la nuova generazione di musicisti carismatici e forse ancora non dispongono di un quadro concettuale solido come quelli che li hanno preceduti. Si tratta comunque di una performance dal vivo, collettiva, molto energica e appunto molto colorata. I colori sono presi in prestito dal mondo della musica jazz, fusion, elettronica come pure dalla musica classica moderna. Credo sia interessante far notare che il progetto ha ricevuto un accogliente successo di critica negli Stati Uniti. Entrambi i progetti sono multistilistici e transgenere. Per esempio, a volte, sento musicisti jazz che vanno dicendo vi è una grande quantità di elettronica nella mia musica, mentre alcuni artisti elettronici sostengono che vi sia “troppo jazz”!
JC: I tuoi progetti musicali per il futuro?
OS: L’idea a cui ora sto pensando e di cui ho effettivamente iniziato a scrivere e organizzare alcuni brani sarà, per la prima volta, qualcosa che coinvolge la voce e i testi letterari. Voglio selezione e rielaborare un po’ di celebri canzoni in maniera jazzistica e al contempo in uno stile composito. A livello tematico queste canzoni inevitabilmente dovrebbero riflettere gli stati d’animo che noi tutti condividiamo nel mondo odierno. Anche in questo caso, vorrei soffermarmi su lato esistenziale, perché oggi c’è molta incertezza; tra le molte esperienze contrastanti, le persone sembrano immerse in mezzo a deliri di onnipotenza. Paul contrario l’arte dovrebbe essere il mezzo simbolico per aiutare le persone a vivere bene sino in fondo la propria vita.