Foto: Fabio Ciminiera
Slideshow. Chiara Pancaldi.
Jazz Convention: Così, a bruciapelo, chi è Chiara Pancaldi?
Chiara Pancaldi: Una cantante innamorata della musica, tutta la musica. Mi ritengo una persona curiosa, che ama entrare in contatto profondo con tutti gli aspetti della vita, la musica quindi non fa eccezione.
JC: Mi parli del tuo nuovo disco?
CP: I Walk A Little Faster” è uscito il maggio scorso per l’etichetta olandese Challenge Records ed è distribuito in Italia da IRD. È un disco che propone una selezione di brani (molti dei quali poco conosciuti) tratti del Great American Songbook. Realizzare questo cd partecipando attivamente ad ogni fase della produzione, collaborare al fianco di Jeremy Pelt, direttore artistico del progetto, confrontarmi con grandi musicisti come Cyrus Chestnut, John Webber e Joe Farnsworth, ha rappresentato non solo un’incredibile occasione di crescita, ma un onore e un privilegio a fronte dei quali mi sento davvero fortunata. Spero che nascano numerose opportunità di farlo ascoltare, soprattutto dal vivo!
JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?
CP: I miei primi ricordi sono un forse po’ naïf e risalgono a quando ero bambina, molto piccola direi. Mia madre cantava, anzi canta ancora in maniera del tutto amatoriale ma con musicalità e cuore. È stata lei ad insegnare a me e a miei fratelli canzoni che tentavamo giocosamente di armonizzare. Ci divertiva fare variazioni e armonizzazioni estemporanee di ogni brano appena appreso. Penso che questo approccio giocoso e istintivo alla musica sia stato centrale nella mia formazione musicale.
JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare una cantante?
CP: Il primo approccio allo studio della musica è stato il pianoforte a cui ho affiancato una naturale inclinazione per il canto. Non mi ha mai imbarazzato cantare in pubblico. Parlare invece sì, tantissimo! Anche ora preferisco cantare piuttosto che parlare di fronte a una platea. Per anni mi sono mantenuta a livello semiprofessionale completando gli studi universitari e alternando al canto altre discipline come la scrittura, che è stata un mio grande amore fin da adolescente, ma alla fine la musica ha vinto sempre scavalcando altre passioni.
JC: E in particolare come mai sei diventata una cantante jazz?
CP: Ricordo ancora la prima volta che ascoltai Ella Fitzgerald, avrò avuto quattordici anni. Comprai un disco dopo aver sentito al telegiornale la notizia della sua scomparsa. Era una raccolta della Verve, quello fu il mio primo disco di jazz. Ricordo che ascoltavo a ripetizione la sua “How High The Moon” (Live a Berlino del 1960), cantando assieme a lei nella mia cameretta. L’avevo imparata a memoria. Quella è stata, in maniera del tutto inconsapevole, la prima trascrizione di solo che abbia mai fatto! Mi affascinava questa sua grande capacità di muoversi liberamente all’interno della materia musicale. Il jazz è una musica che parla di libertà, si nutre della ricerca di libertà e questo è un aspetto che, anche a livello totalmente inconscio, ho sempre sentito e amato.
JC: E allora cos’è ancora per te il jazz?
CP: È, appunto, la ricerca di una libertà profonda attraverso una meravigliosa forma d’arte, che va omaggiata con lo studio e la dovuta dedizione. È la ricerca della libertà di un linguaggio che veicoli emozioni. Ecco, direi che il jazz rappresenta per me la libertà delle emozioni.
JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica in genere?
CP: Ancora una volta libertà, condivisione, comunicazione, amore, possibilità di migliorarsi attraverso qualcosa che è più grande di noi.
JC: Tra i brani che hai cantato ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionata?
CP: Fatico a sceglierne uno solo, ovviamente li amo tutti, altrimenti non li avrei registrati. Posso dire che sono molto legata alla title track, I Walk a Little Faster di Cy Coleman. È un brano splendido che parla di speranza nonostante le fatiche e le delusioni che si possono incontrare lungo il proprio percorso.
JC: E tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?
CP: In questo periodo posso dire, con certezza, With a Song in My Heart di Little Stevie Wonder. Ascoltatelo! È un disco di jazz ed è incredibile con quale profondità cantava già all’età di 13 anni.
JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?
CP: Essendo curiosa e affamata di crescita ho sempre cercato di assorbire da chiunque insegnamenti e suggerimenti. Ogni persona che ho incontrato lungo la mia strada mi ha dato qualcosa, bella o brutta che fosse, ma qualcosa che mi ha fatto crescere e, spero, migliorare come persona e come musicista. I miei idoli di sempre nel jazz sono Charlie Parker, Dizzie Gillespie, Chet Baker, Yusef Lateef, Dexter Gordon, Ahmad Jamal, Ella Fitzgerald, Louis Armstrong, Anita O’Day, Billie Holiday, Carmen McRae, Shirley Horn, Betty Carter, Frank Sinatra, ma anche la musica brasiliana di Tom Jobim, Chico Buarque, Milton Nascimento, Caetano Veloso, Toninho Horta, Guinga, e la musica classica, Bach, Mozart, Beethoven, Puccini, Schumann, Skrjabin, Stravinski. La lista potrebbe continuare ancora a lungo…
JC: E le cantanti che ti hanno maggiormente influenzato?
CP: Anche in questo caso l’elenco è molto lungo… Da ragazzina amavo Ani di Franco, Bjork, Eva Cassidy e Jeff Buckley. Poi sono arrivate Ella Fitzgerald, Anita O’day, Frank Sinatra, Carmen McRae, Shirley Horn, Sarah Vaughan, Mel Tormé, Nat King Cole, Etta Jones, Lorez Alexandria e mille altri, non posso nominarli tutti, ci vorrebbero giorni! Billie Holiday l’ho sempre amata tantissimo, ma credo di aver iniziato a capirla veramente solo negli ultimi anni.
JC: Il momento più bello della tua carriera di musicista?
CP: Posso dire con certezza la mia prima esperienza a New York. Nel gennaio 2013. In particolare quando sono andata a sentire Cyrus Chestnut al Dizzy’s Club. Aveva una settimana di concerti in occasione del suo cinquantesimo compleanno e quando mi ha visto, dopo il concerto, mi ha detto: «Domenica sii pronta a cantare!» Così la domenica sono tornata, terrorizzata ed eccitata allo stesso tempo… Ricordo che per calmarmi mi sono detta: «Chiara sii te stessa, non devi dimostrare nulla: se apprezzeranno bene, altrimenti non succede nulla di grave.» Ed è stato un momento magico… davvero. Mi è servito da tanti punti di vista, ad esempio per capire che è più importante essere se stessi piuttosto che voler dimostrare chissà quale abilità. Anche perché sul campo delle abilità c’è sempre qualcuno che ti supera, e anche di molto, ma quando si parla di personalità, ognuno è unico e irripetibile e nel jazz ho imparato che questo è un aspetto estremamente importante. Questo momento è stato per me un banco di prova importante; da lì sono partite tante bellissime esperienze musicali.
JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?
CP: In Italia ci sono tanti bravissimi musicisti, ancora non ho tante collaborazioni alle spalle, ho però una lunga lista di persone con le quali vorrei collaborare! Comunque, sino ad ora, sono state esperienze incredibili le collaborazioni con Cyrus Chestnut, John Webber, Joe Farnsworth, Jeremy Pelt, Kirk Lightsey, Darryl Hall, e con bravissimi musicisti italiani come Davide Brillante, Nico Menci, Stefano Senni, Piero Odorici, e tanti altri.
JC: Come vedi la situazione della musica in Italia?
CP: Credo ci siano tanti musicisti eccezionali, con tante cose da dire, ma sento che siamo tutti un po’ “sparsi”. Mi piacerebbe sentire più unione, come si sente, ad esempio, in una città come New York dove c’è una grandissima competizione e spietatezza da un lato, ma dall’altro impera un grande senso di comunità coadiuvato da supporto costante. Sebbene sia una città molto sola è facile, forse proprio per questo motivo, sentirsi coinvolti in una comunità. E la cosa bella è che non conta quanto sei famoso, quante cose hai fatto, ma cosa ami. Non conta chi sei ma cosa fai. Bene, all’Italia auguro di cuore questo tipo di scenario.
JC: Differenze tra l’Italia e gli Stati Uniti (che consoci bene) a livello di jazz oggi?
CP: Non posso dire di conoscere bene gli Stati Uniti. Sono stata a New York solo due volte, per tre mesi in tutto. Conosco molti musicisti perché Bologna è una città di passaggio di artisti della scena newyorkese. Per conoscere bene una realtà, però, bisogna frequentarla molto, ma molto di più.
JC: Non vuoi proprio sbilanciarti su New York?
CP: Ovviamente New York è la capitale mondiale del jazz, storicamente e culturalmente parlando. La musica che si produce a New York è molto diversa da quella che si produce qua in Italia. Il discorso in realtà è molto complesso e articolato. Le differenze sono culturali, storiche, sociali ed economiche e si traducono in una musica diversa, come è logico che sia, d’altronde. Il jazz italiano si distingue, ritengo, per capacità di entrare in sintonia con il jazz americano. Devo fare questa distinzione per necessità del discorso, ma il jazz è jazz, anzi la musica è musica… Ad ogni modo… abbiamo esponenti eccezionali che sono conosciuti e stimati oltreoceano, spesso purtroppo, più di quanto non lo siano da noi.
JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?
CP: Varie cose! Sono stata selezionata, unica italiana, per la Montreux Competition che si terrà a luglio all’interno del festival. Inoltre spero di riuscire a fare al più presto un tour di presentazione del disco con Chestnut e il gruppo al completo. A settembre dovrei fare alcuni concerti a Parigi con un nuovo progetto in duo assieme al contrabbassista Darryl Hall. Vorrei anche, a breve, registrare un altro disco. Sto scrivendo molto in questo periodo e chissà che il prossimo lavoro non comprenda proprio brani originali! Nel frattempo questa estate ho un po’ di concerti in giro per il Nord Italia. Insomma, non mi annoierò di certo!