Philology – W 469.2 – 2015
Massimo Urbani: sax tenore
Franco D’Andrea: pianoforte
Attilio Zanchi: contrabbasso
Giampiero Prina: batteria
Il “repertorio” delle testimonianze live di Massimo Urbani si arricchisce di un ulteriore capitolo con la pubblicazione del concerto tenuto dal sassofonista a Chieti nel 1979. Insieme a lui ci sono Franco D’Andrea al pianoforte, Attilio Zanchi al contrabbasso e Giampiero Prina alla batteria. È una registrazione ruvida, senza compromessi, e restituisce in pieno il furore e l’impeto dell’allora ventiduenne Urbani e la grande energia profusa dai suoi tre compagni di palco. La definizione “Italian Massey Hall” aggiunta da Paolo Piangiarelli – patron della Philology, e “inventore” del Premio Massimo Urbani – sulla copertina del disco rende necessarie qualche istruzione supplementare per l’avvicinamento al disco.
La Massey Hall originale è la registrazione di un concerto tenuto nel 1953 presso l’omonimo albergo di Toronto da un quintetto formato da Dizzy Gillespie, Charlie Parker, Bud Powell, Charles Mingus e Max Roach. Come l’esibizione canadese, anche il concerto chietino rappresenta un documento per ascoltare dall’interno un momento di passaggio: il bebop stava già trasformandosi in altre correnti e i protagonisti in modo vario avevano avviato o abbracciato nuovi movimenti, all’epoca del concerto di Toronto. Nel nostro caso, alla fine degli anni ’70, il jazz italiano aveva esaurito la fase imitativa e aveva vissuto la prima stagione delle avanguardie storiche: il concerto teatino ci mostra il momento in cui le varie esperienze personali iniziano ad avere e, soprattutto, a comprendere di avere una propria identità e sono in grado di confrontarsi tra loro e con le singole correnti del jazz senza smarrire la voce di ciascun protagonista, le sue idee e le sue intenzioni. Se Massey Hall arriva al termine della parabola che rappresenta, il concerto del quartetto italiano si pone alla sorgente delle mille anime del jazz italiano odierno, alle fondamenta di tante vicende che ancora oggi apprezziamo sui nostri palchi.
Live in Chieti 1979 propone una musica irruente, senza sconti, e con l’impellente energia di musicisti che stanno affermando il proprio pensiero musicale. La registrazione, per quanto di buona fattura, è stata fatta quasi quarant’anni fa e, probabilmente, senza l’intenzione di ricavarne un disco. Arriva, perciò, all’ascoltatore un corpus sonoro estremamente compatto che rimanda la forza espressiva, la necessità di esporre e esporsi in prima persona, senza troppi punti di appoggio e senza la profondità odierna relativamente alla ripresa sonora. Non ci si trova di fronte ad un disco difficile, ma tanto il neofita che l’appassionato attento alle nuove tendenze del jazz devono rendersi conto, nel momento in cui mettono il disco nel lettore, che hanno a che fare con un documento, con la testimonianza di un momento di passaggio importante, ripreso in maniera non filtrata. Come la fotografia mossa di un momento storico: non possiamo cercare la nitidezza dell’immagine ufficiale, dobbiamo percepirne il significato attraverso il confronto con altri documenti, dobbiamo trovare la strada verso la sua bellezza.
Entrando nello specifico del disco, il quartetto trova nella dimensione acustica la sua voce, nella tradizione degli standard il punto di partenza per il repertorio. Sono gli anni questi in cui dagli Stati Uniti arriva principalmente jazz elettrico e fusion, una stagione che rimarrà caratterizzata in modo molto specifico, tanto da risultare non più svincolabile da quel periodo e da determinati stilemi. Troviamo Urbani, D’Andrea, Zanchi e Prina alle prese con quattro standard – Invitation, You don’t know what love is, Milestones e Cherokee – alle quali sui aggiunge una funambolica esibizione in piano solo di D’Andrea – No Idea of Time. Brani suonati con lunghe improvvisazioni e animati dalla capacità dei quattro di sintetizzare quanto avvenuto nel jazz fino a quel momento per andare oltre. Il piano solo di D’Andrea ne è la rappresentazione più evidente, ma tutto il resto del disco manifesta un approccio preciso: prendere il testimone dal bebop e, lasciandosi attraversare da ascolti ed esperienze, farlo diventare il linguaggio dell’attualità. L’approccio lo si ritrova in molte delle successive registrazioni ufficiali, declinato in maniera differente a seconda delle circostanze. Il concerto fotografa in modo istantaneo il senso e la natura intima del percorso. Massimo Urbani non ha potuto completare il suo “racconto in musica”, a causa della sua prematura scomparsa. Se ci fermiamo alle testimonianze e ai ricordi, la forte compresenza di genio e sregolatezza, probabilmente, avrebbero potuto rendere difficile una sistemazione organica del suo mondo sonoro: nondimeno, in ogni nota, in ogni documento riportato alla luce da Paolo Piangiarelli, traspare tutto il suo talento, emergono la musicalità naturale, l’aderenza al linguaggio del jazz e l’urgenza di far uscire la propria musica. Possiamo interrogarci sulla visione estetica complessiva che Massimo Urbani avrebbe potuto mostrare con la maturità, ma la storia, purtroppo, non si fa con i se. Restano le registrazioni per fortuna e, in particolare, Live in Chieti 1979 ci restituisce una prova folgorante, senza sconti, intensa, caratterizzata da una connessione stretta con il materiale suonato.
Segui Fabio Ciminiera su Twitter: @fabiociminiera