Slideshow. Claudio Cojaniz

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Slideshow. Claudio Cojaniz.



Jazz Convention: Così, a bruciapelo chi è Claudio Cojaniz?


Claudio Cojaniz: Un pianista.



JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?


CC: Le due campane del campanile del paese: le tre note diatoniche discendenti che si udivano non andando in sincrono, creavano in me l’attesa del momento in cui arrivava l’unisono. Una tensione che andava a risolversi, per poi riscappare… La chiave della musica tonale, vero?



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?


CC: La voglia di comporre istantaneamente, di inventare continuamente delle storie…



JC: E in particolare un pianista jazz?


CC: Il pianoforte mi riguarda fin da quando avevo sei anni: non mi ha mai lasciato, né io lui.



JC: Ma cos’è per te il jazz?


CC: È la sveglia dell’umanità, l’assunzione della responsabilità individuale, il saper stare assieme a chi vuoi bene e stimi ed il conseguente costruire assieme, la musica delle ferite sempre aperte, il camminare diritti per una strada sempre storta, dove incontri l’imprevisto e dal quale ti lasci guidare, è poesia continua, fratellanza e pietas, eros cosmico e un antidepressivo potente, e chissà cos’altro ancora…



JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica?


CC: La musica non può essere arredamento, né sottofondo. È impegno profondo ed un gioco serio, come sono seri i bambini quando giocano.



JC: Parliamo ora del tuo ultimo disco: perché un ritorno alla stride che pareva dimenticato da tutti?


CC: Lo stride mi piace da matti e mi completa: lo trovo come stile sintetico e senza inutili orpelli. Tiene alto il senso del blues. E poi, citando Verdi o Lenin: «…fare un passo indietro, per farne due in avanti.»



JC: Tra gli altri dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?


CC: I volumi che sto dedicando allo stride-piano, Il Blue Africa, duo con Franco Feruglio al contrabbasso e Carmen con la Red Devils Orchestra. Il primo è un desiderio che ho sempre avuto di dire la mia sugli standard: il secondo è un atto d’amore per l’Africa in generale e per la miriade di culture che rappresenta,il terzo perché è pieno di riferimenti diversi (al rock, al blues, alla musica balkan, etc…)e perché un’orchestra di 19 elementi non so se potrò mai rimetterla in piedi.



JC: E tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?


CC: Money Jungle, trio con Duke Ellington al piano, Charles Mingus al contrabbasso, Max Roach alla batteria.



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?


CC: Posso dirti le mie passioni: virginalisti inglesi dell’epoca elisabettiana, Byrd e Gibbons in primis, Bach, Schubert, Maderna, Nono e Messiaen, George Russel per il Lydian Chromatic Concept e tanti tanti altri musicisti. Poi direi senz’altro Gadda, Pasolini, Borges, Auden, Dante, Campana, Leopardi, Queneau e Jarry, Artaud e Levinas, Bataille, Kafka, Dostoevskij e Gogol, Amiri Baraka, Ginsberg, e mille altri.



JC: E i pianisti che ti hanno maggiormente influenzato?


CC: Ellington, James P. Johnson, Monk, e in genere tutti i pianisti stride e blues.



JC: Esiste un’identità del jazz mitteleuropeo?


CC: Non ho mai capito cosa significhi esattamente…



JC: E un’identità del jazz friulano?


CC: Stessa risposta. Salvo aggiungere che nei luoghi del mondo dove esiste un ritardo piuttosto consistente all’omologazione – e il Friuli in parte lo è, fortunatamente… – le idee sono più originali e c’è un po’ più tempo per svilupparle, il tempo giusto. Non so quanto durerà ancora, però…



JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?


CC: Contrabassisti come Franco Feruglio, Alessandro Turchet, Romano Todesco e Giovanni Maier, batteristi come Zlatko Kaucic, Alessandro Mansutti e Luca Colussi batterista, il percussionista Luca Grizzo, violinisti come Maria Vicentini e Alexander Balanescu violinista, il sassofonista Francesco Bearzatti, l’armonicista blues Gianni Massarutto, il chitarrista Jimi Barbiani, il pianista Giorgio Pacorig, il trombettista Cuong Vu e tutto il quintetto dei D.K. Blues Band.



JC: Come vedi la situazione della musica in Italia?


CC: Direi che in generale il conformismo virtuosistico fine a se stesso o peggio scimmiottante la fa da padrone. La tecnica in generale domina la nostra sensibilità oramai da troppo tempo: schiere di abilissimi invadono le sale dei teatri ed dei club… Thanatos puro. Credo per esempio che al circo dopo il terzo salto mortale uno non vede l’ora che escano i clown. Ogni concerto non può che essere un evento emotivo e ci si aspetta che i musici raccontino una storia… E poi questa cosa di usare i pezzi di Monk per poi improvvisarci sopra come fossero degli standard di bop è noiosa. E c’è troppa gente che spaccia per improvvisazione il catalogo delle possibilità dello strumento che sta esibendo. Parallelamente troppo miele in giro: si sa che lo zucchero maschera una violenza subdola e irretente…



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


CC: Tra poco cominceranno i concerti con Armenian Dream, settetto che ho costruito attorno al cantante di origini armene Arto Tuncboyacyan; poi registrerò Hispanish & Blues Songs, progetto che stiamo suonando in giro con un sestetto da un annetto circa; questi due progetti sono realizzati con la maggior parte dei musicisti che ho nominato sopra e con cui mi piace suonare. Ho appena registrato lo Stride Vol. 2; e con il nuovo F.A.C. Trio (Feruglio e Mansutti) sto preparando un lavoro fortemente ispirato alle atmosfere africane, un po’ come Blue Africa…