Foto: di Linda Vukaj, dalla pagina facebook del Beppe Di Benedetto 5tet
L’altro punto di vista di Beppe Di Benedetto
«Questa crisi economica è davvero pesante. Le occasioni di lavoro si sono diradate. Qualcosa sta cambiando, qualche spiraglio s’intravede, ma è ancora molto dura.» Incontro Beppe Di Benedetto nella sua casa di Parma all’indomani di una sua gig a Verona, dove ha suonato musica cubana con un gruppo di musicisti caraibici. È rientrato molto tardi. «Serata faticosa, di là del viaggio notturno e delle poche ore di sonno. Quei colleghi sono davvero bravi e preparati. Hanno una terrificante capacità di lettura a prima vista e, dal punto di vista ritmico, seguirli non è cosa da poco. Impegnativo ma molto stimolante. È una fortuna, in questi tempi grami, poter suonare a questi livelli. Fino a qualche anno fa molte pop star amavano avere i fiati nei loro gruppi, i turnisti erano ricercati. Ho lavorato con Jovanotti che dava molto spazio ai suoi musicisti. L’improvvisazione era un momento importante dei suoi concerti. Aveva chiamato Marco Tamburini, come arrangiatore e come capo dell’orchestra, e Marco mi aveva scelto. Era un amico vero. Faccio fatica a realizzare che non ci sia più. Sono stato anche sideman di Gianni Morandi. La sua musica può anche non piacere ma lui è un professionista serio. Conosce la musica e sa cosa vuole dai suoi collaboratori. È una persona seria, concreta.»
«Ma oggi come oggi anche i grandi nomi devono guardare non solo ai costi, ma anche al gusto corrente. Così Mario Biondi ha abbandonato le sue sonorità jazzy e ha sciolto il suo vecchio gruppo nel quale ho suonato a lungo. Ora propone musica più adatta alle discoteche. È legittimo, naturalmente, e comprensibile. Fra l’altro si è circondato di musicisti molto adatti ai suoi nuovi progetti. Tutto questo per dire che trovare ingaggi non è così scontato, e non è facile nemmeno insegnare nelle scuole private. Bisogna adattarsi: le bollette e l’affitto di casa non sono così sensibili ai valori artistici… Ogni tanto chiedono il mio trombone per suonare in qualche orchestra classica. Opere liriche estive soprattutto. Anche se ho studiato al conservatorio, non ho proprio la stoffa del musicista classico. Come trombone di fila faccio il mio dovere, non potrei mai capitanare una sezione di un ensemble classico.»
Faccio notare a Beppe che nel suo studio ci sono due leggii. Su uno c’è lo spartito delle sei suite per Violoncello di Bach trascritte per trombone, sull’altro, su una tastiera, c’è il Song book di Pat Metheny.
«Le Suite sono un monumento, hanno in musica l’importanza della Commedia dantesca in Letteratura. Le studio in continuazione e tutte le volte mi sorprendo di quanta ricchezza Bach abbia espresso con uno strumento monodico quale il violoncello. Non sono un musicista classico, come ho detto, ma non ignoro affatto la ricchezza della tradizione. Mahler, ad esempio, è uno dei miei fari. Ha una grande importanza nel mio modo di intendere la musica. Che per me non è solo la dialettica di ritmo, armonia e melodia, ma un vero e proprio strumento narrativo. Mahler raccontò la sua epoca, ne descrisse in musica il dramma, che era quello di una crisi radicale, di passaggio da un mondo a un altro.»
Il compositore austriaco è citato, non a caso, proprio nelle note di copertina di Another point of view, l’ultimo disco pubblicato a nome del trombonista siculo-parmense.
«No, non è un caso. In questi anni ho maturato la convinzione che le note hanno una valenza narrativa. Troppe volte noi musicisti pensiamo che al centro del mondo musicale ci siano le successioni o le sostituzioni degli accordi. Quando mi metto al tavolo per scrivere un pezzo, o quando imbraccio il mio strumento, io sono in quel momento un essere umano attraversato da sentimenti e sensazioni, che sta vivendo un suo momento particolare, che magari è preoccupato per il futuro o in preda alla malinconia del passato. Magari quell’essere umano è in crisi. In ogni caso vive nella sua epoca. Quella che mi è stata data in sorte è tumultuosa, cangiante, inafferrabile. Magnifica e angosciante. Io voglio raccontarmi, in qualche maniera: o almeno provare a riportare sulla pagina questa folla di pensieri e sensazioni. Ogni disco ha una sua radice emotiva, è lo specchio di un vissuto. Per questo è necessario trovare una propria voce, andare sempre oltre se stessi. La vita non è mai uguale.»
«Certo, resto un jazzista. Uno che studia J.J. Johnson tutti i giorni o quasi, e che ha lavorato a lungo sui patterns, ma che sente anche che le forme tradizionali non sono più sufficienti. Soprattutto trovo un po’ logora quella del tema-improvvisazione-ripresa. Un brano non può esaurirsi così. Si rischia, alla fine di ascoltare solo l’improvvisazione e la ripresa del tema perde interesse. Occorre trovare, appunto, un altro punto di vista. Usare nuovi strumenti per dire di una realtà in continuo mutamento. Quindi ho ascoltato molta musica mentre elaboravo il progetto. Molto Pat Metheny, molto jazz newyorkese – anche laggiù si sta elaborando una riflessione sulle forme: credo che molti di quei nostri colleghi si stanno “europeizzando” – e, addirittura, Ennio Moricone. Il cd nasce anche da un’altra esperienza artistica. Tempo fa ho conosciuto Otello Pagano, un pittore parmigiano con il quale sono alla fine diventato amico. Una volta, durante una mostra mi chiese cosa pensavo del suo lavoro. Mi piaceva e glielo dissi, ma in realtà non sapevo perché quei quadri mi colpissero. Era solo una questione di “pancia”, una sensazione epidermica. Otello mi spiegò con pazienza ogni tela, i suoi intendimenti, le sue tecniche, le emozioni che lo avevano ispirato. Alla fine il lavoro del mio amico mi apparve sotto una luce più vivida. Realizzai veramente che è importante che l’arte non debba essere solo “subita”, non può essere giudicata né con il gusto immediato né in base a dati tecnici. Essere originale dal punto di vista armonico o ritmico è importante, la teoria musicale deve essere tenuta sempre presente. Ma dovremmo far capire a chi ci ascolta da quale parte di noi nasce una certa pagina. Vedi, Otello – la persona che ha disegnato per il cd una raffinata copertina) usa, in alcune sue tele, materiali che col tempo restituiscono colori diversi. L’opera si trasforma, cambia pelle. Anche la musica, soprattutto il jazz, si trasforma continuamente.»
«Con questo non voglio dire che Another point of view sia fuori dalla tradizione afro-americana. Tutt’altro. Il jazz è il mezzo per raccontare questo pezzo della mia vita. Ogni titolo ha un suo significato. Non mi piace appiccicare un titolo a un brano già scritto. Il titolo deve spiegare il contenuto, e viceversa. La musica a programma è stata spesso snobbata a livello critico. Io, però, ho sempre amato non solo vari Vivaldi, Strauss, Mahler, ma anche il Mingus di Fable of Faubus, o il Coltrane di Alabama.»
Il jazz, però è musica comunitaria e individualista. Chiedo a Beppe se è stato difficile raccontarsi attraverso il contributo di musicisti dalla spiccata personalità come i suoi partners. In altre parole gli ho chiesto, a rischio di cadere nell’ovvio, in che misura ha riempito lo shaker del disco. Quante parti d’improvvisazione e quante di scrittura. La risposta è sorprendente.
«In percentuale Another point of view e fatto di un 100% di scittura e da una ugual dose d’improvvisazione. Non prevale un aspetto. Scrivendo, Luca Savazzi ed io (pianista del gruppo e autore di tre brani) abbiamo tenuto conto del modo di suonare di ogni membro del quintetto (Emiliano Vernizzi ai sax, Stefano Carrara al basso, Michele Morari alla batteria), ma non è stato difficile. Viviamo tutti nella stessa città e ci conosciamo da sempre. Io so che Emiliano è sempre più spiazzante e poetico, che Luca è un pianista scarno ed essenziale che però ha la capacità di portare il gruppo dove vuole. So che Stefano ha orecchio assoluto e una cultura musicale tale da permettergli di non perdere mai di vista i solisti per quanto lontano vadano. So che Michele, pur giovanissimo è concreto e fantasioso. È il nostro secondo disco (anche se nel primo, See the sky, alla batteria c’era Alessandro Lugli), ma non solo. Noi siamo anche amici, ci conosciamo da tempo. Avevo anche pensato di chiamare una guest star ma ho lasciato cadere l’idea. Avrei ingaggiato qualche bravo musicista che avrebbe trasmesso una luce riflessa e fredda sul progetto. Avrebbe dato un suono “mercenario”, forse non del tutto funzionale al mio intendimento. Jazz di provincia? Perché no? Parma è una realtà particolare. Prima dell’arrivo di Roberto Bonati e del suo Festival c’era ben poco in città. Roberto ha rianimato la scena ed ha portato una mentalità libera. Eravamo isolati ma non avevamo nemmeno una scuola. Per capirci, Bologna ha una grande tradizione che però si è un po’ cristallizzata in un sound molto legato all’hard bop. Qui il terreno è ancora quasi vergine. Negli ultimi anni, inoltre, sono stati aperti alcuni locali in cui si fa del jazz. Suoniamo spesso fra noi e ci è capitato anche di incrociare gli strumenti “jammando” con colleghi di altre città. La comunità jazzistica locale è giovane e aperta. Non ci sono stratificazioni che la appesantiscono.»
Per chiudere il trombonista mi ricorda che il disco è stato realizzato con il sistema del crowfunding. Di Benedetto è rimasto sorpreso dell’adesione di tanti sottoscrittori. «L’industria discografica non produce più. Fare dischi non conviene: non si vendono. Autoprodursi è sempre più difficile. Inutile piangersi addosso. Mi sono rivolto a sostenitori e amici che credevano nel progetto. Sarebbe bello, ora, che ci credessero anche organizztori di festival e i gestori di club.»