NBR/SAJazz – 2014
Lawrence D. “Butch” Morris: direzione
David Murray: sax tenore, clarinetto basso
Evan Parker: sax tenore
Greg Ward: sax contralto
Pasquale Innarella: sax contralto
Joe Bowie: trombone
Toni Cattano: trombone
Meg Montgomery: tromba elettrica
Riccardo Pittau: tromba
Jean-Paul Bourelly: chitarra
On Ka’a Davis: chitarra
Alan Silva: sintetizzatore
Harrison Bankhead: contrabbasso
Silvia Bolognesi: contrabbasso
Chad Taylor: batteria, vibrafono
Hamid Drake: percussioni
È grazie all’Associazione Punta Giara, organizzatrice del festival Ai Confini Tra Sardegna e Jazz a Sant’Anna Arresi, che possiamo recensire un disco di enorme valore e pregio: la registrazione, cioè, di una delle ultime Conduction, la 192a (29 agosto 2010), del trombettista, improvvisatore, compositore e direttore d’orchestra Butch Morris, scomparso nel 2013. Le sue conduction sono diventate storia e riconosciuto “marchio di fabbrica”. La sua concezione del “tutto”, del far confluire la musica e il jazz in una sorta di grande magma fluente e vitale, l’ha reso un riferimento, unico, all’interno del movimento d’avanguardia.
Trombettista free, ha trasposto questa sua predisposizione naturale nella conduzione orchestrale, che sotto la sua guida si muove seguendo i dettami dell’improvvisazione pura e dove gesti e indicazioni diventano gli unici punti di riferimento da cui partire o orientarsi. Sono gesti tecnici che Morris ha sviluppato, dal 1985, e reso “metodi” durante decenni di sperimentazioni e conduzioni. Possible Universe, e il titolo la dice tutta su quale dimensione si muovono le sue idee, è una creazione che racchiude in se otto momenti di cui l’ultimo assume le sembianze di una suite. Alla realizzazione di questa opera hanno preso parte quindici musicisti americani e italiani, protagonisti indiscussi della scena jazz d’avanguardia mondiale. Spetta al trombone di Joe Bowie introdurre la prima cellula vitale che porterà al big bang lacerando il velo notturno che copre la part one. A lui di seguito si affiancherà l’archetto di Harrison Bankhead, i fiati e poi le percussioni a colorare e tingere di mistero chiaroscurale la creazione dell’universo morrissiano. Il secondo episodio si apre con un assolo di Evan Parker. Il sassofonista traccia la strada a cui vi si accoda l’intera orchestra in un crescendo di suoni e responsi. Nel terzo atto arriva il cambio di rotta con un crescendo forzuto di tutto l’ensamble sorretto dalle percussioni e scandito nell’incedere da minimali squilli di tromba. Il magma sonoro e collettivo lievita nell’anarchico e improvvisato quarto movimento con gli strumenti che cercano singolarmente di uscire dal magma che li tiene assieme. Il tutto termina nel silenzio che da voce al quinto e melodioso movimento. Quasi una sorpresa all’interno di quest’opera, dove Morris usa temi più “orecchiabili”, swinganti, e intriganti, affidandosi al solo dei fiati e di un David Murray superlativo. È un pezzo che funge da spartiacque, apporta una riflessiva serenità prima di giungere a un nuovo caos, quello del sesto movimento, dalla primigenia natura mingusiana. È il clangore degli strumenti che si scontrano come guerrieri in una pacifica battaglia quello che colpisce nell’immediato. Il resto è drammatica narrazione che mano mano si spegne, tra incursioni di chitarra e fiati repressi, per affidarsi al giudizio di un archetto risoluto che riassume gli umori e fa da preludio ai suoni spaziali della suite finale. Qui le tastiere ricreano una quieta atmosfera kubrikiana: è un fluttuare senza meta attraverso un universo sconosciuto tranciato dal suono cavernoso e disperato del sax. E tutt’attorno l’orchestra ricama colori e suoni come fosse una banda a metà strada tra New Orleans, la tradizione, e il minimalismo contemporaneo. Un capolavoro!
Segui Flavio Caprera su Twitter: @flaviocaprera