Il Nylon di Matthew Herbert

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Il Nylon di Matthew Herbert.



La “due giorni” del minifestival Nylon, in programma al Teatro Civico di Vercelli il 9 e il 10 settembre, presenta uno sguardo all’insegna del jazz, o meglio di quel nu jazz o refound che piace tanto agli organizzatori e di cui negli anni scorsi Vercelli era capitale mondiale grazie al festival di Denis Longhi e Casa Noego. I “nostri” tornano in qualche modo ai primi amori proponendo in maniera quasi speculare due concerti dove un musicista internazionale si confronta con una coppia di jazzmen italiani: ecco quindi da un lato il cileno Ricardo Villalobos con Gianluca Petrella e Luigino Ranghino, dall’altro, il britannico Matthew Herbert con Enrico Rava e Giovanni Guidi.


Senza nulla togliere al poker d’assi del sincopato tricolore, è sul geniale compositore inglese che occorre puntare i riflettori. Pianista fin da ragazzo Herbert alterna l’attività di performer concettuale e musicista politico a quella di star dell’elettronica tra dancefloor, rumorismo, postdodecafonia. Matthew da vent’anni collabora inoltre con la crème della scena londinese, remixando per esempio per Björk e Yoko Ono, oppure inventandosi swinger d’altri tempi con una vera Big Band, fino a essere definito il Brian Eno del XXI secolo oppure versione one man band dei Radiohead.


«La televisione – sosteneva già cinque fa anni Matthew Herbert – ha preso il sopravvento, la chirurgia plastica si diffonde sempre più, le modelle che già sono le donne più belle del mondo vengono modificate ulteriormente con Phototoshop, tutto contribuisce a creare un’illusione. Credo che sia una mia responsabilità come artista il far scoppiare questa bolla, interrompere questo meccanismo.»


E in tal senso il quarantatreenne musicista inglese decide di tentare di cambiare una situazione in cui la musica non è più considerata un’arte, ma un semplice passatempo.


Per lui insomma, quasi tutta la musica odierna risulta «una manifestazione di conformismo piuttosto che una voce indipendente. Ha una funzione di evasione. Ma la cosa per me più interessante è che finge di essere di evasione quando, in realtà – e l’esempio più calzante quello di una discoteca, un luogo buio delimitato da pareti, che sembra disegnato per escludere il mondo circostante e dunque finge di essere separato dalla realtà – oggi è diventato dominio di corporations: tutto è sponsorizzato da marche di birra a réclame di sigarette, playstation, redbull, tutto insomma veicola messaggi pubblicitari e mi meraviglia molto che la musica abbia deciso di accettare questa versione “corporate” della realtà, invece di metterla in discussione.»


Anche sui talent show – come, ad esempio, X Factor – il britannico è drastico, considerando queste trasmissione come un imbroglio, che gli ricordano “La novella dell’indulgenziere” dello scrittore medievale Chaucer (un po’ l’equivalente del nostro Boccaccio). Infatti l’indulgenziere è «un beone e puttaniere che vende le indulgenze per conto dell’arcivescovo di Canterbury. Una sera, ubriaco fradicio in un’osteria, si alza e confessa pubblicamente tutti i suoi vizi, compreso il suo non credere in Dio e deride coloro che, nonostante tutto questo, continuano a comprare le sue indulgenze. X Factor è esattamente così: un imbroglio spettacolare. Lo trovo grande televisione per certi versi, soprattutto perché è un eccezionale amplificatore di emozioni. E soprattutto ti illude, ti fa credere di avere la competenza di decidere chi ha talento e chi no.»


E a proposito di talento ecco come il compositore si esprime nei confronti della propria musica: «Amo lavorare con i suoni, sono parte di un impegno: un impegno teorico, un impegno di principio, emotivo, nei miei confronti di individuo britannico; sono parte di un impegno e sono parte della ricerca di cosa significa essere me stesso, oggi. E i miei principi, il mio essere assolutista, sono la cristallizzazione di quella visione. Includendo suoni di altre persone della cosiddetta “vita reale”, il mondo fattuale, documentario, sento che respira, che passa da solida roccia inerte a terra fertile di humus: cerco di non usare la parola “organico” ma non ce la faccio e la uso… Ora però il passo dell’innovazione e così forsennato da non permettere la nascita di un’avanguardia artistica organizzata come nel XX secolo. Perlomeno, non succederà fin quando non ristrutturiamo il capitalismo, fin quando non rimettiamo le comunità al primo posto anziché il commercio.»


La filosofia di vita di Matthew Herbert, infine? Sta tutta in un interrogativo che egli stesso si pone: «La più grande sfida per un artista è rispondere a questa domanda: “Perché sto scrivendo questa cosa?” Se possiamo rispondere e dare una risposta interessante, o appropriata, possiamo considerarci soddisfatti.»