M.O.F.: Sonorità nervose per una generazione “fritta”

Foto: Yuriy Zacchia Lun










M.O.F.: Sonorità nervose per una generazione “fritta”


I M.O.F. nascono a Ferrara nel 2009 quando, nelle aule del conservatorio della città, cinque ragazzi si uniscono per dare spazio a una creatività senza compromessi. Sono Stefano Dallaporta (basso e contrabasso), Frank Martino (chitarra ed elettronica live), Diego Pozzan (batteria e percussioni), Manuel Trabucco (sax soprano, alto e tenore) e Filippo Vignato (trombone ed elettronica). Il loro nome, acronimo di “mercato orto frutticolo”, designa un luogo aperto in cui beni materiali e immateriali circolano senza soluzione di continuità. Porto franco di idee, è così che possono definirsi i due album al seguito (Embarassing days del 2010 e Fried generation del 2013) in cui vari generi vengono negoziati, nella libera interazione musicale, e filtrati attraverso il background del jazz. Improvvisazione e composizione in studio si combinano per dare vita a una narrazione dal ritmo concitato che registra influenze diverse, e musicali e di vita, memori dei migliori maestri della fusion. In occasione del loro live al recente “Il jazz italiano per L’Aquila”, Stefano Dallaporta e Frank Martino hanno risposto alle nostre domande per farci scoprire il progetto del M.O.F. quintet, un progetto in continua evoluzione che sta destando l’attenzione del panorama musicale italiano ed estero.



Jazz Convention: Dai Weather Report a John Scofield, nei vostri brani citate i grandi maestri attraverso svariati espedienti compositivi. Quale valore assume la citazione nella vostra musica?


MOF: Nonostante faccia molto piacere che la nostra musica possa rimandare a grandi artisti come quelli che hai nominato, non siamo soliti utilizzare la citazione in modo consapevole. Ovviamente, essendo le nostre influenze molteplici e provenienti da generi diversi, è possibile rintracciare una fusione di diversi stili all’interno dei brani, ma alla base vi è sempre l’idea di creare musica originale. Le uniche citazioni volute sono quelle che utilizziamo all’interno dei titoli di brani come, ad esempio, The One Who Met Miss Jones o Finally Fried, di dreamtheateriana memoria.



JC: Il nome del vostro ultimo album, Fried Generation, è molto evocativo: a cosa avete voluto alludere?


MOF: Il titolo del disco nasce da tutta una serie di amicizie/conoscenze che abbiamo fatto nel nostro periodo di vita comune a Ferrara e in giro a suonare negli ultimi anni, presenti solo in minima parte nella foto all‘interno del libretto del disco. Questi personaggi denominati “fritti” si rapportano con il resto della società mantenendo una loro personalissima visione della realtà, a volte talmente personale che agli occhi esterni (nostri) sembra che non ne abbiano alcuna. Spesso la frequentazione di queste persone, ci ha infuso un senso di eccitazione. Da qui il discorso si allarga; abbiamo trovato un certo parallelismo tra i fritti, o denominati tali, e le persone che li osservano, ossia noi. In un brano in particolare presente nel nostro disco (Eureka), la riflessione alla base è che la nostra generazione è fritta, ossia su grande scala ha perso, o gli è stata presa, la realtà per sostituirla con altre realtà.



JC: Lo scambio e la restituzione live fra gli strumenti e l’elettronica è un espediente fondamentale nel vostro percorso. Come interagisce la componente elettronica con gli altri strumenti?


MOF: L’utilizzo dell’elettronica prevede due modalità distinte: la prima che possiamo definire di produzione e la seconda che, invece, possiamo chiamare live electronics. L’elettronica di produzione è parte dell’arrangiamento del brano, quindi può essere principale o di complemento all’interno del pezzo, si trova quasi sempre nelle sezioni scritte e non è mai improvvisata. L’elettronica live è quella che viene generata sul momento, soprattutto durante le sezioni di improvvisazione; essa comprende sia i suoni provenienti da campionamento di strumenti acustici in tempo reale, sia quelli sintetizzati dal computer, che in questo caso viene utilizzato come un qualsiasi altro strumento, interagendo dunque con il solista e la sezione ritmica.



JC: Il ritmo dei vostri brani è incalzante, quasi rock, e sostiene un susseguirsi di “storie” che celano un horror vacui del tutto contemporaneo e che si placa solo nel brano finale. Come interpretate questo bisogno di riempire?


MOF: Sono tanti anni che ci conosciamo e che suoniamo insieme. In questo secondo disco abbiamo cercato delle sonorità più “nervose” se vuoi, proprio perché, a nostro avviso, rispecchiavano l’idea di “generazione fritta” che c’eravamo prefissati. Naturalmente non vogliamo fare dell'”horror vacui” una cifra stilistica. Con questo gruppo abbiamo la possibilità e fortuna di poter fare musica esclusivamente nella misura in cui abbiamo voglia di farla insieme, senza nessun tipo di condizionamento musicale o lavorativo.



JC: Nei vostri brani non abbandonate mai un impianto narrativo ben saldo, quanto spazio concedete all’interpaly e qual è il suo ruolo nella composizione?


MOF: Cerchiamo di bilanciare il più possibile l’aspetto compositivo con quello improvvisativo. Tutti noi abbiamo un background di tipo jazzistico, da cui deriva la volontà di rendere i brani sempre diversi ad ogni esecuzione; per questo motivo all’interno dei pezzi è sempre presente una sezione di improvvisazione, a volte molto libera a volte molto strutturata, in base all’effetto che si vuole ottenere. Allo stesso tempo le nostre influenze comprendono l’ascolto di musica interamente scritta proveniente da varie tradizioni stilistiche e periodi storici, dunque i brani hanno sempre una forte struttura tematico/formale e non sono concepiti come un pretesto per l’improvvisazione.



JC: Qual è il vostro prossimo progetto?


MOF: In questo periodo ci stiamo trovando per provare musica nuova che ognuno di noi ha pensato per questo gruppo. Vedremo l’effetto che ci fa. Da qui poi ragioneremo su che strada percorrere per un eventuale prossimo disco.