Foto: Fabio Ciminiera
Ripartire dai suoni? Riconquistare gli spazi?
Il Jazz Italiano per L’Aquila
L’Aquila – 6.9.2015
Credo sia doverosa una breve premessa personale. Il mio rapporto con L’Aquila è stato, e resta ancor’oggi, molto stretto. È la città dove ho studiato e vissuto per cinque anni e sono stati anni splendidi, ne porto un ricordo indelebile. Molti ricordi, ad esempio, ora, dopo il terremoto, non hanno più il luogo fisico dove sono stati vissuti. Sentivo di dovere anticipare queste parole prima di ogni altra riflessione, a proposito di una giornata importante tanto per la città e per le sue ferite, quanto per il jazz e la sua situazione.
Una seconda premessa viene dai due punti interrogativi del titolo. La sensazione al termine della maratona è stata quella di non rendersi effettivamente conto di chi abbia beneficiato del soccorso dell’altro, di chi tra la vicenda aquilana e la scena jazzistica nazionale avesse maggiormente bisogno del riflettore puntato. Un aspetto, questo, con risvolti di vario genere, positivi e meno positivi.
La giornata, per dirla semplice, è stata molto bella. È andato tutto per il verso giusto, dalle condizioni meteorologiche alla risposta appassionata, oltre che imponente per quantità, del pubblico, dalla disposizione al dialogo dei jazzisti con le persone presenti alla necessità di condividere le emozioni scatenate dalla visione delle macerie aquilane. Credo sia utile – tornando tanto alla premessa iniziale, quanto al senso intimo della manifestazione – non usare giri di parole per dire come sono messe le strade e le piazze del capoluogo abruzzese. Molte delle sessantamila persone giunte in città si sono trovate per la prima volta faccia a faccia con una situazione dura, durissima ancora oggi, dissimile quantomeno da quella raffigurata dai mezzi di comunicazione: e già la semplice presa di coscienza collettiva di una tale realtà valeva lo sforzo fatto. Moltiplicata poi per il riflesso nelle bacheche dei social network, va a costituire un’onda lunga di memorie.
Se era impossibile vedere tutto, il pubblico non ha vissuto questo aspetto come un problema: ha utilizzato le tappe del programma e gli spostamenti necessari per andare da un posto all’altro, per tracciare un proprio itinerario musicale. Ogni spettatore si è ritagliato così il ruolo attivo che deve avere nelle rassegne moderne. Entrare in città ed essere accolti da musica proveniente da ogni direzione, è stata una bella sensazione. Così come è stato gratificante vedere i musicisti esibirsi davanti a platee colme di persone, vedere il pubblico interessato a quanto accadeva sul palco. Si potrà ribattere che «non tutti sono arrivati a L’Aquila per il jazz» o che «non tutti hanno capito cosa stavano ascoltando»… Il compito del mondo del jazz, il nostro compito, sarà proprio quello di farli tornare e farli appassionare, di fare leva sulla giornata vissuta per aprire nuove strade.
Gli spazi scelti – dal ponte del Castello Cinquecentesco alle piccole piazzette, dalle chiese alla scalinata di San Bernardino e, infine, al palco centrale posizionato in Piazza Duomo – hanno costituito una splendida cornice all’evento. La bellezza della città resta nelle sue pietre austere: palazzi feriti, linee spezzate e distrutte in molti punti restituiscono ancor oggi, tra travi e ponteggi, l’idea e l’impressione del loro splendore. Diciotto palchi popolati da 587 musicisti – questo il totale dei partecipanti annunciato dal palco – capaci di rappresentare in modo abbastanza fedele molte delle realtà della scena nazionale. Un numero tanto elevato toglie fiato a molte delle perplessità in cui si poteva incorrere: la risposta alla “call for action” è stata, tutto sommato, generale e generalizzata. Per permettere tutti gli avvicendamenti, ogni concerto è durato circa trenta minuti: testimonianze del percorso compiuto, il segnale per manifestare con la propria presenza, in modo plurale e secondo le declinazioni interpretate da ciascun partecipante, il messaggio del “Jazz Italiano per L’Aquila”. Va sottolineata, se necessario ancora una volta, la grande disponibilità del mondo del jazz ai temi sociali: la partecipazione e le parole spese dai musicisti sui vari palchi rendono giustizia alla giornata e alla profondità dell’impegno personale di molti protagonisti nei confronti di questo come di altri temi civili. Occorre riflettere su alcuni punti con l’intenzione di non mettere “la cenere sotto il tappeto” e non certo per sminuire il lavoro fatto e l’importanza della giornata. Credo sia necessario, proprio in occasione di un evento simile, soprattutto considerando il contesto dove si è svolto, cercare una valutazione sfaccettata e capace di tenere conto dei tanti aspetti messi in luce dall’esperienza aquilana. Se è difficile ricordare un altro Ministro della Cultura che abbia pronunciato la parola “jazz”, sarebbe importante coniugare l’attenzione finalmente ricevuta con una disamina radicale dei punti di forza e delle carenze del complesso della nostra scena. La richiesta di un intervento “gratuito” – a fronte dei continui tagli alle risorse per la cultura – pone delle questioni circa il rapporto tra istituzioni e mondo della cultura: la risposta offerta dimostra la presenza e la vitalità del panorama nazionale e l’importanza, in generale, delle attività culturali; il valore delle iniziative – o, come in questo caso, delle risposte – deve però essere sempre protetto e garantito. Sarebbe il massimo se si riuscisse a ricordare, tra qualche anno, l’evento aquilano come il primo passo di un percorso virtuoso per dare riconoscimento al lavoro fatto negli ultimi decenni, ormai, dal jazz italiano. E per questo non bisogna nascondersi, mi ripeto, le criticità del momento attuale. In una giornata come questa, dobbiamo evitare di dimenticare, ad esempio, che spesso i musicisti suonano per pochi soldi in situazioni che sviliscono studi, impegno e passione.
Per tornare agli aspetti più felici, sicuramente il più significativo è stato il contatto tra pubblico e musicisti. La formula totalmente aperta della giornata – L’Aquila ha conosciuto ben più tristi transenne in questi anni e molti sbarramenti non sono ancora stati rimossi – ha permesso a tutti di essere vicini ai palchi, di parlare con i protagonisti appena ascoltati, e chiacchierare con loro. Molti dei palchi sono stati posizionati in modo che vi si potesse girare tutt’intorno, anche per trasferirsi verso un’altra postazione. La situazione ha favorito quindi la rottura di barriere e pareti sceniche. Solo nel palco centrale non è avvenuto questo – complice anche la mancanza di un maxischermo e dell’illuminazione nella parte bassa della piazza – e questo aspetto ha tradito in qualche modo la pratica vissuta nel corso del pomeriggio. Per quanto riguarda lo schermo e le luci, devo aggiungere che non so se fosse possibile fare altrimenti: la città è ancora provata, come si è visto, e anche cose altrove banalmente fattibili possono diventare inapplicabili.
Se fosse ancora necessario sottolinearlo, la qualità della scena jazzistica italiana è alta e, come ha dimostrato la massa dei concerti del pomeriggio, la base del movimento è estremamente solida con i giovani, con i talenti emergenti e con i nomi di varia grandezza. Musicisti validi che molti festival nazionali continuano inspiegabilmente a non invitare. La speranza è che il folto pubblico, animato dalla curiosità del primo incontro, si spinga a recuperare in rete le esibizioni dei tanti nomi presenti nel programma e, poi, anche di chi non c’era. La speranza ulteriore è che molti arrivati in città per il clamore suscitato dall’avvenimento e totalmente digiuni di jazz e, in generale, di musica, si ricordino anche di aver visto dei concerti e, magari, in seguito si appassionino. Per quanto riguarda la scena nazionale, è senz’altro positiva l’idea di avere un luogo di incontro dove mettere sul tavolo le questioni o semplicemente vedersi, l’abbiamo scritto anche altre volte. È stata tentata in varie occasioni da Luciano Vanni con i vari Meeting del Jazz Italiano e con le giornate tenute a Collescipoli. L’investitura istituzionale diventa una chiave in più, la possibilità di spingere oltre un bisogno che è, allo stesso tempo, vetrina esterna e confronto interno: l'”optimum” sarebbe riuscire a mantenere alto e vigile il bisogno di condivisione e la “responsabilità democratica e civile” necessariamente innescata dal riflesso di uno scenario come quello aquilano. Il capoluogo abruzzese è il terreno ideale per un appuntamento del genere.
La giornata – solare, appassionata e partecipata – ha portato un riflettore tanto sulla situazione aquilana a sei anni e mezzo dal terremoto del 6 aprile 2009 quanto sulla scena del jazz italiano. La felice riuscita della manifestazione e il reciproco sostegno non coprono e non devono coprire la concretezza dei problemi. Sarebbe un fatto estremamente utile e stimolante dare, ad esempio, stabilità nel tempo alla “giornata”: vista la naturale predisposizione della città e dei suoi luoghi, sarebbe il teatro naturale per un evento simile anche a prescindere dall’emergenza. Se si punta a voler tener desta l’attenzione sulla città, forse avrebbe senso portare anche “altri mondi” a confronto con le macerie, mettendo altre persone di fronte alla riscoperta dei monumenti e alla vividità delle ferite. Con la speranza, nel secondo caso, che siano davvero poche le repliche e che L’Aquila torni il più presto possibile ad essere una città normale, viva non per un’occasione speciale ma nei pomeriggi dei giorni feriali o nelle serate di pioggia.
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