Hunger and Love. Un tributo sfaccettato al genio di Billie Holiday

Foto: la copertina del disco










Hunger and Love

Un tributo sfaccettato al genio di Billie Holiday


Il centenario della nascita di Billie Holiday ha mosso in casa Dodicilune l’idea di un tributo collettivo, realizzato attraverso ventiquattro voci italiane. Ventiquattro temi affrontati liberamente intorno alla figura della grandissima cantante statunitense: le reinteprretazioni passano infatti dall’elettronica al blues, dal recupero di sonorità e linguaggi ancestrali alle sperimentazioni più ardite e, naturalmente, approdano alle diverse tradizioni del jazz. Abbiamo contattato in chat Gabriele Rampino, direttore editoriale di Dodicilune, per andare ad ripercorrere la strada che ha portato in un disco doppio – Hunger and Love, appunto – le esecuzioni dei brani di Lady Day rilette da Tiziana Ghiglioni, Paola Arnesano, Gianna Montecalvo, Serena Fortebraccio, Lisa Manosperti, Serena Spedicato, Mara De Mutiis, Camilla Battaglia, Letizia Magnani, Cecilia Finotti, Chiara Pancaldi, Antonella Chionna, Rachele Andrioli, Francesca Ajmar, Silvia Anglani, Marta Raviglia, Loredana Melodia, Cristina Renzetti, Stefania Paterniani e Elisa Ridolfi, Lisa Maroni, Silvia Manco, Elisabetta Guido, Barbara Errico, Elga Paoli.



Jazz Convention: Come è nata l’idea di omaggiare Billie Holiday in maniera plurale come è poi avvenuto in Hunger and Love?


Gabriele Rampino: Ho sempre amato i progetti a tema. Da svolgersi in maniera trasversale, sia quanto al contenuto, sia quanto agli artisti che con la loro personalità esprimono, su un tema, la propria visione. Mi piacevano i progetti di Hal Wilner su Monk, Nino Rota, Walt Disney, Mingus. Così ho pensato che ventiquattro voci della scena jazz e creativa italiana potessero esprimere il miglior omaggio a Lady Day. Senza retorica e con piena libertà. Il progetto è il primo di una serie. Nelle intenzioni, almeno…



JC: Infatti la dimensione trasversale è la linea che colpisce di più… Immagino che, una volta scelte le interpreti, non abbiate imposto loro nessun paletto…


GR: No, assolutamente. Già, in generale, io amo la produzione discografica in cui il produttore conferisce all’idea la giusta direzione, la cifra editoriale, ma nella quale poi l’anima e la sensibilità degli artisti emergono libere. Così è stato per Hunger and Love, che ha molte anime ma un’unica direzione.



JC: Come avete proceduto alla scelta delle cantanti? Avete guardato in “casa” Dodicilune, ma vi siete spinti anche oltre…


GR: Naturalmente abbiamo privilegiato la scelta interna, ma era giusto guardare oltre, verso voci della scena jazz – e creativa in generale – italiana. Ciò ha consentito anche di stringere nuovi legami e di iniziare nuove collaborazioni.



JC: L’idea come è stata recepita? Immagino, anche, che abbiate colto di sorpresa alcune delle vostre “candidate”…


GR: Si, certo, ma le artiste sono sempre pronte alle sfide e ai nuovi percorsi creativi. I risultati lo dimostrano proprio per la novità di molte interpretazioni.



JC: In particolare nei confronti del songbook di una figura del calibro di Billie Holiday, tanto come interprete che come donna…


GR: All’inizio era prevalsa una scelta di brani molto noti e tipicamente legati alla figura della Holiday. Poi l’esigenza di non ripetersi ha portato molte artiste verso soluzioni davvero inusuali. Ad esempio, la scelta operata da Tiziana Ghiglioni con Eclipse – brano che Mingus aveva scritto per Billie che tuttavia la rifiutò – o come Misery di Tony Scott che fu invece eseguita ma non su disco, se ne trova una rara versione su YouTube (Nel disco viene interpretata da Silvia Manco – n.d.r).



JC: Una volta raccolte tutte le registrazioni, quale è stato il lavoro di “post-produzione”? Non deve essere stato banale combinare insieme interpretazioni diverse, “governare” uno spettro sonoro davvero ampio di soluzioni e, anche, stilare la scaletta di un disco doppio composto da 24 brani, tenuti da un filo conduttore unico ma reso poi in maniera tutt’altra che unitaria…


GR: Infatti. Pur avendo personalmente seguito tutte le registrazioni, ho lavorato molto per rendere unitario il percorso, sia per quanto riguarda il suono che per il disegno della tracklist, la cui scelta in generale è un mio pallino in cui credo molto per la felice riuscita di ogni progetto. In questo caso l’impegno è stato di difficoltà maggiore ma anche di soddisfazione.



JC: La voce femminile è naturalmente il centro del lavoro. Nelle risposte offerte dalle cantanti, quali sono gli aspetti che ti hanno colpito o addirittura stupito nel percorso che avete affrontato?


GR: La disponibilità al rischio e alla novità interpretativa ma anche la metabolizzazione del testo, l’immedesimazione nel percorso creativo e personale della Holiday che trasuda dai brani e che ciascuna ha trasfuso nella propria lettura rispettandone il senso, pur con un linguaggio moderno.



JC: A fianco delle voci, sono entrati nel disco moltissimi musicisti… Quali sono stati i numeri del progetto?


GR: Domanda di matematica alla quale non ero preparato… Ventiquattro artiste per ventiquattro brani e, credo, una cinquantina di musicisti differenti per estrazione e stile, sette o otto studi di registrazione…



JC: L’occasione del centenario della nascita di Billie Holiday è stato lo spunto di partenza per questo progetto. Qual’è secondo te l’eredità lasciata al jazz odierno?


GR: In quest’epoca di manierismo spesso sterile, in cui ci sono molti bravi musicisti e ottime voci senza molta anima, Billie Holiday insegna come per lasciare un segno non si possa prescindere dal mettere in gioco il proprio vissuto, la propria anima, la propria esperienza umana nell’espressione artistica, ognuno con la sua specificità, ma non senza rischio e senza la consapevolezza che quella volta potrà essere l’ultima.



JC: Con quale approccio inviteresti l’ascoltatore ad avvicinarsi ad un’opera e ad una operazione come questa?


GR: Con un approccio libero e aperto, intellettualmente curioso. Non è una operazione emulativa perché Billie è unica, irripetibile, inimitabile. Ma ha conferito alla crescita artistica e anche umana delle interpreti di Hunger and Love un’impronta indelebile che ciascuna ha saputo trasfondere nella propria vocalità. Ne viene fuori a mio avviso un panorama interessante del fertile mondo del jazz italiano e, in particolare, della vocalità in un periodo creativo come questo.



JC: La scelta del titolo, Hunger and Love, rispecchia in qualche modo quanto dicevi sull’eredità di Billie Holiday: qual è stato il percorso che vi ha portato a sceglierlo?


GR: La scelta del titolo nasce dalla lettura dei libri di e su Billie Holiday. Mi è rimasta impressa la frase citata più volte e cioè che nessuno come Billie Holiday ha saputo cantare la Fame “(Hunger”) e l’Amore (“Love”). Ed è una grande verità.



JC: All’inizio dicevi che stai pensando ad altre operazioni simili… potresti anticiparci qualcosa?


GR: Il prossimo progetto per scaramanzia non lo rivelo mai anche perché è in fase embrionale. Posso dire che sarà ancora di più trans-genere ed avrà un riferimento extra jazzistico. Come si dice, stay tuned!



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