Mauro Ottolini & Sousaphonix @ Secondo Maggio

Foto: Fabio Ciminiera










Mauro Ottolini & Sousaphonix @ Secondo Maggio

Milano, Auditorium Giuseppe Di Vittorio – 3.10.2015


Musica per una società senza pensieri. Mauro Ottolini & Sousaphonix hanno avuto l’onore di aprire la nuova stagione dell’Atelier Musicale dell’Associazione Secondo Maggio. Maurizio Franco, con la sua proverbiale chiarezza e precisione, ha voluto ricordare innanzitutto la figura di Riccardo Terzi scomparso lo scorso settembre, fondatore e animatore dell’Associazione, e poi ha preannunciato che il cartellone di questa stagione sarà diverso dal solito perché il jazz incontrerà folklore e culture di altri popoli. Come ha confermato anche Mauro Ottolini nell’intervista, nei brani di questo suo lavoro si è ispirato alle musiche provenienti dal mondi diversi. Se il jazz delle origini rimane la principale fonte di ispirazione, il trombonista ha voluto concedersi una vacanza viaggiando attraverso le musiche di popoli e continenti diversi, senza rinunciare ad elementi fondamentali per un jazzista come l’arrangiamento e la composizione. Ottolini rimane ispirato alla musica afro-americana, ma ha voluto riscoprire le tante anime della musica europea e mediterranea e poi spingersi verso la musica del Centro Africa e del Giappone, dei Caraibi, del Centro America e del Messico.


Mauro Ottolini e la cantante Vanessa Tagliabue Yorke hanno impeigato due anni per realizzare questo progetto. È stata una ricerca lunga e faticosa: sono partiti da una vecchia foto del 1921 che ritraeva un’orchestra chiamata Musica per una Società Senza Pensieri, attiva nella Valsugana. I due hanno immaginato che l’orchestra si fosse recata all’estero e avesse suonato un po’ dappertutto, partendo dagli Stati Uniti dove avrebbero incontrato Duke Ellington, al Cotton Club, in pieno Jungle Style. I Sousaphonix hanno dato la loro versione contemporanea, avvalendosi anche di effetti speciali come i suoni della Natura e i rumori, gli spari e le urla della guerra, strumenti della tradizione africana, le conchiglie o i tamburi, ma anche strumenti come il Theremin o l’harmonium per dare vita ad una musica coinvolgente, suggestiva e inquietante nello stesso tempo.


I musicisti sono comparsi sul palco con abiti stravaganti. Ottolini si è presentato con un abito bianco con scritte onomatopeiche ricavate dai fumetti. Vanessa Tagliabue Yorke dal canto suo, ha portato un vestito lungo e scuro, con una gonna molto lunga. Le voci dei due cantanti – Vincenzo Vasi e la già citata Tagliabue – hanno sfoggiato voci potenti e di grande estensione, soprattutto Vanessa che passa con disinvoltura dalle note più basse ai registri più acuti. Notevole anche lo sforzo linguistico: i brani sono stati infatti eseguiti nelle loro rispettive lingue originali e, quindi, anche in finlandese, in arabo o in portoghese.


Nella band si sono messi in evidenza il clarinettista Dan Kinzelman e, per la ritmica, il bassista Danilo Gallo e il batterista Zeno De Rossi. L’organico ha davvero riempito il palco con la sua musica. Per quanto riguarda Mauro Ottolini, oltre ad essere un valente trombonista, uno dei migliori del panorama nazionale ed europea, è anche un direttore d’orchestra, compositore e arrangiatore di livello.


Va anche messo in evidenza l’aspetto ludico del fare musica interpretato dal gruppo: è sempre presente lo scherzo, fatto di effetti speciali, di rumori di fondo, di situazioni coinvolgenti e la parodia, rivolta anche alla tradizione e alla classicità del jazz. Tra le sue vittime, all’inizio, un brano di Duke Ellington. A tale proposito mi torna in mente quanto faceva negli anni ’50 un musicista come Spike Jones. Tra i brani più interessanti l’ellingtoniana A drum is a Woman, I need salvation, un blues che finisce tra spari e urla, un chiaro riferimento alle guerre che sconvolgono il mondo e, infine, la danza haitiana di Choucoune.


Prima del concerto, ho avuto modo di avvicinare Mauro Ottolini e registrare una breve chiacchierata con il trombonista a proposito della musica che avrebbe eseguito di lì a poco sul palco, ma anche delle sue ispirazioni e dei suoi riferimenti nella storia del jazz e dello spirito con cui si predispone a lavorare sui nuovi progetti.



Jazz Convention: Voglio iniziare con una domanda un po’ distante dal concerto di questa sera… Un paio di anni fa, Musica Jazz ha pubblicato un tuo disco dedicato a Lester Bowie realizzato insieme a Frank Lacy. L’hai più rivisto?


MO: Con dispiacere devo dire di no. Tra l’altro dopo l’uscita del disco, ci invitarono a suonare diversi concerti. Frank però aveva dei problemi familiari e quindi non poteva allontanarsi troppo da casa. Nella mia indole, però, c’è la caratteristica quella di cambiare continuamente strada e nel frattempo avevo già dato il via ad altri gruppi, ad altri progetti. Alla fine, è rimasto solamente una bella esperienza, un bellissimo disco e l’amicizia con Frank che è un musicista che stimo tantissimo, sia come trombonista che come cantante.



JC: Tra le tue ispirazioni c’è sicuramente Lester Bowie. Quali sono stati gli spunti che hai tratto dalla sua carriera? La dimensione radicale dell’Art Ensemble of Chicago, lo sguardo alle tradizioni e in particolare alla musica di New Orleans, la deriva anche popolare di dischi come Avant Pop?


MO: Nel periodo storico che va dagli anni venti agli anni trenta, nel jazz, ma anche nella pittura o nel cinema, c’è stata una grande fucina di idee. Lo dimostra ad esempio il fatto che Schoenberg sia arrivato in quel periodo alla dodecafonia o che Stravinskij abbia scritto delle cose pazzesche. La cosa interessante è che c’è stata gente come Fletcher Henderson e Coleman Hawkins che erano talmente avanti da scrivere musica che nessuno voleva suonare: ci sono pezzi come Queer Notions, che sto preparando per il gruppo, che suona fin troppo moderno ancor oggi, pensa quanto era all’avanguardia per l’epoca. Credo che Lester Bowie si ispirasse tanto a questi musicisti quanto alla musica popolare: il tratto che sento in comune con lui è proprio questo. Bowie è stato un musicista di grande ironia: quando con la Brass Fantasy reinterpretava i brani pop era uno stimolo per prendere queste canzoni, giocarci, stravolgerle, metterci dentro l’improvvisazione, distruggendole.



JC: Mi sembra un po’ quello che stai facendo tu, utilizzando la tradizione con un certo grado di libertà…


MO: Io scrivo delle cose mie originali, ma spesso lavoro su brani riarrangiandoli e rivedendoli. Ad esempio, ora sto lavorando su un pianista danese, Kjeld Bonfils, sconosciuto ai più, che è stato contemporaneo di Jelly Roll Morton, ma andava in una direzione simile a quella di Bill Evans. È stato un pianista talmente particolare che ha scritto musica interessantissima capace di mescolare ispirazioni differenti. Ma, allo stesso tempo, amo in generale tutti i trombonisti che hanno utilizzato lo strumento in modo originale, cercando di rivoluzionare o, meglio, di innovare il linguaggio.



JC: Il prossimo disco che farai?


MO: Sarà un disco di canzoni, molto tristi e molto lente. Canzoni perché voglio dedicare una parentesi della mia vita al mondo della canzone così come era una volta, quindi i riferimenti di questo progetto sono il Trio Lescano, Claudio Villa, Gorni Kramer. Stiamo lavorando a questo materiale per dare vita a un disco che probabilmente andrà oltre i confini del mondo del jazz, perché voglio fare una musica universale che possa arrivare un po’ a tutti. Sempre mantenendo il ruolo dell’improvvisazione, sempre cercando di fare una musica viva e non sterile, però andando nella direzione dove ci porta il cuore.