Le parole del Talos Festival

Foto: Fabio Ciminiera










Le parole del Talos Festival: incontro con Pino Minafra

Ruvo di Puglia – 11.10.2015


Spostare lo svolgimento di un festival un mese più in avanti – da settembre ad ottobre, nel caso specifico – è decisamente più complicato che spostare indietro le lancette in occasione del passaggio all’ora solare. L’esperienza vissuta quest’anno dal Talos Festival ci permette di parlare tanto delle difficoltà che accompagnano un’operazione culturale quanto della tenacia e della volontà di portare avanti l’avventura. E, quindi, nel pomeriggio della domenica, abbiamo proposto a Pino Minafra – direttore artistico della rassegna ruvese, insieme al figlio Livio – delle parole su cui innescare il ragionamento relativo alla costruzione, alla gestione e, in generale, alle condizioni che hanno permesso poi fattivamente di realizzare il Talos Festival. La prima parola non poteva che essere…



Ottobre.

Ottobre, uno pensa al freddo, alla pioggia, alla precarietà. Inoltre, si aggiunge il problema legato ai soldi: il festival ha un budget ridotto di almeno 100000 euro rispetto allo scorso anno. Era impossibile, ad esempio, mettere un palco nella Piazzetta Le Monache (la sede storica del festival – n.d.r.) e tenerne uno a disposizione per coprire il caso pioggia: abbiamo dovuto decidere di fare tutto dentro, ovviando per quanto possibile al rimbombo, alquanto imbarazzante, legato alla struttura del Palasport. Ad ottobre la predisposizione del pubblico non è più quella di settembre, c’è tutto un altro tipo di afflusso. Un aspetto positivo è stata la maggiore presenza della stampa locale, dal momento che ad ottobre non ci sono altre manifestazioni in concomitanza. Il festival è stato spostato ad ottobre per avere il respiro e la possibilità di organizzare una situazione che di minuto in minuto stiamo tutt’ora tentando di controllare.



Volontari.

Quando, tre anni fa, abbiamo fatto ripartire il festival, Livio, con la sua freschezza, con la fiducia e l’entusiasmo della gioventù, ha individuato e coinvolto delle figure nuove nell’organizzazione, ha dato loro delle responsabilità e, in effetti, la loro presenza è stato il fattore che ha determinato e sta determinando la riuscita del festival. È una cosa preziosa perché coinvolge: per anni siamo stati operativi io, mia moglie Margherita e Livio, quando naturalmente è cresciuto. Eravamo giovanissimi e avevamo l’elasticità e l’energia necessaria per riuscire a fare delle cose mostruose nella loro complessità. Oggi non è più possibile perché è diventato tutto più complicato, a partire dalla burocrazia. Questa apertura è stata fondamentale: se ci sarà un futuro per questo festival, sarà anche in questa “rivoluzione umana”, per usare la definizione di Livio. La gente prende consapevolezza di cos’è questa manifestazione e aderisce. A me, personalmente, queste energie hanno ridato un po’ di linfa, perché era arrivato il momento in cui ero totalmente svuotato di energia e di voglia. È stato un anno ipercomplesso, pieno di difficoltà. Questi giovani nei primi incontri mi hanno rimesso in pista e mi hanno fatto capire come, pure avendo io generato tanti anni fa il Talos, adesso è di tutti e devo continuare, per quanto possibile, a dare un apporto a questa avventura.



Banda.

La Banda è la madre di questo nostro festival. La mia personale battaglia politico-culturale continua. Ero appena riuscito, con grandi sforzi, a fare arrivare il messaggio al nuovo assessore alla cultura, Gianni Liviano, ma ahimè pochi giorni fa si è dimesso. Quindi non ho idea di chi sarà la prossima persona al quale porgere questo grido: dare una opportunità di lavoro dignitoso a questi gruppi, ai giovani che escono dal Conservatorio. È lo sbocco naturale dei ragazzi che studiano i fiati: sarebbe necessaria, in Puglia, una legge che regolamenti e dia dignità al fenomeno. Sono cinque o sei mesi di lavoro tra le tantissime feste patronali del nostro territorio. Nei dieci anni della giunta Vendola questo messaggio non è arrivato, non si è creata una risposta concreta. Mi auguravo che con la nuova giunta si potesse affrontare il problema, ma, al momento siamo ancora all’anno zero. Detto questo, nell’anteprima del Talos, abbiamo avuto ancora una volta conferma di quanto sia bello il mondo della banda. I dati oggettivamente belli, costruttivi e positivi sono stati il pubblico e la musica. Sugli altri aspetti, non dico sia meglio tacere, ma quasi…



Pietra bianca.

Per le ragioni che dicevamo prima, quest’anno siamo stati costretti a tenere anche l’anteprima nel Palasport, in questo luogo apparentemente orribile, ma combinato bene è diventato accettabile. Anche perché, altrimenti, in caso di maltempo l’alternativa sarebbe stata entrare in chiesa: alcuni progetti potevano entrare, altri decisamente no. Sia per le sonorità che per le licenziosità di alcuni testi delle tradizioni popolari. Certo! L’impatto della piazza della Cattedrale è quasi miracoloso: cattura i passanti, le persone più passive che magari non si sono informate, vengono comunque attirate dalla musica. L’intento dell’anteprima è acculturare, catturare, dare la possibilità alla gente di avvicinarsi. E poi – e questo avviene, te lo assicuro, con numeri modesti, ma avviene… – i più coraggiosi si spingono a seguire i concerti della sezione internazionale dove le progettualità sono più complesse.



Traccia.

Le cose avvengono in maniera naturale, devo essere sincero. Non abbiamo deciso di realizzare i video o i dischi per lasciare un documento o per dire che il festival è un luogo di produzione: la progettualità è insita nell’idea stessa del Talos. È ovvio, in questo modo si lasciano effettivamente delle tracce, ma la cosa più importante è lanciare dei segnali. La metafora di Gesù che mandava i semi e questi germogliavano nei luoghi più impensabili e, al contrario, si inaridivano nei luoghi dove era più naturale aspettarsi una “risposta”. Uno lancia il messaggio e dove arriva, arriva. Nel nostro caso, il messaggio è mantenere una attenzione sulla proprio anima e sulla propria identità: il rispetto per la tua storia, proteggere i luoghi dove si è sviluppato il percorso, mantenere la propria libertà. L’uomo è un mistero e non può essere ingabbiato da una società consumistica che ci vuole polli di allevamento: non dobbiamo più pensare, ma subire ordini su cosa mangiare, come vestire, come programmare la nostra vita e la nostra musica. Questo è mostruoso. Il jazz più autentico – sia chiaro, ce n’è molto che viene irretito da queste logiche di mercato – ci fa intendere che dobbiamo tenere sempre alte tematiche come dignità, rispetto, uguaglianza tra le persone di provenienza diversa e oggi è una questione ancora tristemente attuale. Questo anelito, questo grido esiste anche nel Laboratorio Talos, probabilmente è utopico, forse l’umanità non raggiungerà mai questi risultati, è inutile fare i poeti. Ma abbiamo l’obbligo di provarci, di provare a dare dei piccoli segnali.



Futuro.

Il futuro è incerto, esattamente come questo cielo che abbiamo addosso in questo pomeriggio. Ci sono nuvole pesanti, grevi, e un raggio di sole. La realtà tecnica è che il Comune è in default, Sindaco e assessori hanno dato le dimissioni. La Regione non ci ha riconosciuto, l’assessore si è dimesso qualche giorno fa. I punti fermi sarebbero il Ministero e Puglia Sounds che quest’anno è intervenuta a darci una mano importante. Ma credo che il vero punto fermo sono quelle figure che dicevamo poc’anzi. Il background umano che si è creato sotto il festival: continuare, con loro, a fare quelle che umanamente possiamo fare. Progetti a lunga gittata, con questo clima, è impossibile. Ma naturalmente non è solo Ruvo, non è solo la Puglia: è tutta l’Italia che vive questa precarietà estrema. Ascoltando Livio questa mattina (nel corso della presentazione dei dischi di Pino e Livio Minafra che si è via via trasformata in un dialogo sulla situazione del festival – n.d.r.) – per un attimo mi sono sentito un po’ ricaricato, pronto ad affrontare le sfide. È mortificante – dopo ventidue anni di Talos, dopo i cinque anni di Noci, dopo le esperienze a Bari, Matera, Molfetta, dopo trent’anni, in pratica, in cui ho cercato di aprire spazi per dare visibilità a questa musica – ritrovarsi non come l’inizio, ma peggio. All’epoca, però, avevo trent’anni, ora ne ho sessantaquattro e la differenza si sente. Quando penso che un kamikaze in Turchia ha fatto saltare per aria cento ragazzi che volevano un approccio diverso per la soluzione dei problemi, capisci che le verità più sacre sono frutto di sofferenze e costi altissimi di vite umane. Quindi qualunque diritto universale non te lo da mai nessuno gratis, ci vogliono anni, sofferenze, tragedie. Ho ben chiara questa visione, se penso a quelle cose, a tragedie ben più grandi, il festival diventa, per quanto l’esperienza possa essere difficile e anche penosa, una fatica sopportabile.



Vivere di Cultura.

Il mondo ci invidia per la nostra cultura, per la musica, per la moda, per il cinema. Abbiamo la stragrande percentuale del patrimonio artistico del mondo, il pensiero che abbiamo sviluppato. Se pensi che Ruvo era in Magna Grecia, siamo pregni di quell’approccio. Abbiamo un museo qui a Ruvo, il Museo Jatta, semplicemente stupendo. Tutto questo non appartiene più al nostro DNA: il cittadino predilige altre cose, la cultura è diventata un optional, si pensa che l’arte non sia determinante. Ed è un grande autogol: a livello nazionale, adesso qualcosa in più comincia ad arrivare, si sta diffondendo una certa consapevolezza, l’idea che i beni culturali si traducano in economia, turismo, risposta al degrado e, anche, alle mafie e a tante altre cose. Ma non mi illudo, anche riportandolo a Ruvo, il processo è estremamente lento. L’unico modo per poter fare arrivare il messaggio a più persone è esistere, resistere sempre, in modo da poterlo porgere quel messaggio. Le nostre battaglie vanno portate avanti vita natural durante, se hai voglia, forza e capacità di poterlo fare. E ti dico, spesso la forza di questa costanza sento di non averla.



Identità. Il Talos e la sua identità.

Ognuno di noi ha le proprie convinzioni. Io sono fortemente convinto che tutta la storia dell’arte parta da una concezione singolare, personale, di un artista, quale che sia la sua disciplina, ma all’interno di un contesto specifico, dell’ambiente che lo ha “partorito”. Ogni musicista fotografa la sua realtà, racconta sé stesso e racconta il suo momento storico. Credo che la ricchezza più grande dell’umanità sia proprio la somma delle tante identità: è come vedere Dio in tanti modi, ma poi è sempre Dio; è come vedere la musica in tanti modi, ma è sempre la musica. È il mistero dell’universo, della creazione, di Dio o della nostra Natura o di come lo si voglia chiamare. Vedere l’invisibile, il mistero in tante sfaccettature. Il problema è quando non si vuole accettare una musica, una religione o un approccio diverso e questo scatena le guerre. C’erano, ci sono e ci saranno sempre. Non c’è nulla di più bello, però, che accostare approcci diversi: stasera avremo l’Albania sul nostro palco, ieri abbiamo avuto uno sguardo al Mediterraneo, il giorno prima abbiamo ascoltato un duo formato da un russo e da un ucraino e incontrato i “sapori” delle loro terre. Io mi commuovo quando sento queste anime, penso ai nostri genitori, mi rendo conto da dove arrivano, penso alle loro tipicità e a tutto quello che li rende unici nell’universo. Ebbene, non è poco…



Segui Fabio Ciminiera su Twitter: @fabiociminiera